Professione

I rischi sotto traccia di un rapporto di scambio

di Marcello Clarich

Anche ai liberisti più convinti, contrari alle tariffe minime obbligatorie e ai regimi dei prezzi amministrati, risuona come una nota stonata il principio che un Comune possa mettere a gara la redazione del proprio piano strutturale ponendo a confronto professionisti disposti a lavorare gratis, salvo il rimborso delle spese autorizzate. È questo in estrema sintesi il principio stabilito dal Consiglio di Stato che ha respinto un ricorso di alcuni Ordini professionali della provincia di Catanzaro che avevano impugnato il bando del comune capoluogo (V Sezione n. 4614/2016).

La sentenza parte dalla definizione di matrice europea di «appalto pubblico» come contratto a titolo oneroso per l’esecuzione di lavori, la fornitura di beni o, come nel caso di specie, la prestazione di servizi. E in quest’ultima nozione rientrano ormai pacificamente, nonostante alcune obiezioni degli Ordini, i servizi professionali che ormai sono sottoposti alla disciplina del Codice dei contratti pubblici e dunque alle regole pubblicistiche delle gare.

Fin qui tutto bene. Dove il ragionamento inizia a mostrare qualche crepa è quando si attribuisce al concetto di contratto oneroso «un significato attenuato o in parte diverso dall’accezione tradizionale e propria del mondo interprivato». Infatti, secondo la sentenza, la serietà e affidabilità dell’offerente può essere assicurata da altri vantaggi economicamente apprezzabili anche se non direttamente finanziari. Nel settore delle gare pubbliche, per esempio, già gli enti del terzo settore possono partecipare a procedure senza dover dimostrare che l’offerta economica garantisce un minimo di utile d’impresa. Inoltre il codice dei contratti pubblici ammette i contratti di sponsorizzazione, specie nel settore dei beni culturali, nei quali lo sponsor privato eroga una somma o si accolla un debito in cambio del diritto all’uso promozionale dell’immagine.

Ma nessuno dei casi sui quali fanno leva i giudici di Palazzo Spada è convincente. Da un lato, enti non profit come le cooperative di produzione e lavoro incorporano in realtà l’utile di impresa nei salari e in altri tipi di compensi erogati ai soci lavoratori. Dall’altro, l’utilizzo dell’immagine acquisito dallo sponsor ha un valore di mercato facilmente quantificabile in termini monetari, come ben sanno le agenzie pubblicitarie. Il ritorno di’immagine per il professionista che lavora gratis per un ente pubblico è meno traducibile in cifre. In molti casi, anzi, il vantaggio indiretto potrebbe essere meno nobile e cioè potrebbe essere quello di acquisire “entrature” o rapporti privilegiati con uffici pubblici da rivendere alla clientela. Il passo può essere breve rispetto alla soglia del traffico di influenze illecite, millantate o meno che siano.

In realtà, la sentenza si inserisce in un contesto generale nel quale da vari anni si sta affermando il principio della gratuità delle prestazioni rese alle Pa. Ormai la partecipazione a commissioni di studio nominate dai ministeri o anche a consigli di amministrazione di enti pubblici è prevista per legge senza compensi e spesso è escluso persino il rimborso delle spese di viaggio. Anche i compensi per incarichi di vertice di enti pubblici, come reazione estrema agli abusi del passato, sono ormai quasi irrisori, tanto da rendere difficile il reclutamento di amministratori e manager di livello. Prima o poi ci si renderà conto che questa china può essere pericolosa e creare inefficienze nel lungo periodo. Intanto i professionisti avranno un motivo in più per reclamare il ripristino dei tariffari minimi obbligatori o altre forme di equo compenso. Al di là di tutto andrebbe ricordato il proverbio secondo cui «neanche il cane muove la coda per niente».

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