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La riforma dell’Irpef deve fare i conti con antichi difetti di sistema

di Salvatore Padula

La rimodulazione dell’Irpef riporta l’attenzione su un tema antico e mai risolto: la distanza abissale tra i redditi reali degli italiani e quelli dichiarati al fisco. La nuova curva del prelievo personale – con quattro aliquote, rispetto alle cinque attuali – è pensata per “premiare” il ceto medio. Si tratta, par di capire, dei redditi personali compresi tra 40-50mila euro, che sono i maggiori destinatari dei risparmi Irpef, che complessivamente ammontano a 7 miliardi di euro per il 2022.

Il paradosso è che, nel nostro paese, almeno sulla base della fotografia un po’ falsata che emerge dai dati sulle dichiarazioni fiscali, un reddito di 50mila euro non può essere considerato un reddito medio, ma un reddito medio-alto, visto che a superare questo livello sono solo 2,3 milioni di contribuenti (su circa 41,5 milioni), pari al 5,6% del totale. Numeri che, ovviamente, proiettano un’ombra sulla capacità delle statistiche fiscali di rappresentare la realtà: oltre metà dei contribuenti, 23,3 milioni, dichiara meno di 20mila euro. Solo 500mila dichiarano oltre 100mila euro (l’1,2% del totale) e meno di 41mila stanno sopra i 300mila euro. Un paese un po’ diverso rispetto a ciò che suggerisce l’esperienza di ciascuno di noi.

Il che spiega bene perché al di là delle riforme (ovviamente utili e necessarie) resta da affrontare un problema storico di contrasto dell’evasione fiscale. L’Irpef è ormai diventata l’imposta più evasa (in passato era l’Iva): oltre 38 miliardi di tax gap, di cui 33 derivanti da lavoro autonomo e reddito d’impresa e poco più di 4 dal lavoro dipendente (sommerso e altro lavoro irregolare), un po’ meno di uno dalle addizionali.

Le statistiche, quindi, non ci dicono quali sono i redditi degli italiani ma quali redditi gli italiani dichiarano al fisco. Con un divario impressionante tra le due grandezze. Difficile pensare che un sistema che poggia su queste precarie basi possa assolvere efficacemente alla sua fondamentale funzione redistributiva. Ed è piuttosto chiaro che senza un’efficace lotta all’evasione la politica rinuncia alla radice all’obiettivo dell’equità del prelievo. E finisce per decidere arbitrariamente che a “sopportare” il maggior livello di tassazione sia solo un manipolo di cittadini onesti o un po’ più onesti di altri.

Questa zavorra che pesa sulle statistiche fiscali diventa, purtroppo, una sorta di peccato originale con cui deve farei i conti ogni riforma fiscale, compresa quella che muove ora i primi passi. E che non può fare altro che orientare le proprie scelte su dati che sa bene essere poco rappresentativi della realtà.

L’idea di fondo di questo primo step della rimodulazione dell’Irpef – in effetti, ancora troppi dettagli sono ignoti per poterne parlare come di una “vera riforma” – sembra piuttosto chiara: avvicinare tra loro gli scaglioni di reddito e le aliquote di prelievo, riducendo quelle intermedie (mentre rimangono identiche a ora quella iniziale del 23% e quella finale del 43%, che però anticipa a 50mila euro il suo ambito di applicazione) con benefici che si ripercuotono sull’intera platea dei contribuenti, pur in misura differenziata.

Il primo obiettivo del riordino appare raggiunto. Il prelievo individuale diminuisce per tutti i contribuenti. La nuova curva costruita con quattro aliquote e scaglioni non penalizza nessuno (come accennato, premia maggiormente il ceto medio e riserva un trattamento che potremmo definire “neutro”, pur con un piccolo risparmio, anche per i redditi più elevati).

Anche altri obiettivi di questa prima fase sembrano essere a portata di mano. Il nuovo assetto rende più morbida la curva della progressività e meno ripidi i “salti” delle aliquote marginali effettive. E avvia un percorso di razionalizzazione (anche di semplificazione, si spera) delle detrazioni, a partire dall’assorbimento del bonus Renzi-Gualtieri.

Andrà, però, ben valutata la scelta di applicare l’aliquota massima del 43% già a partire dai redditi di oltre 50mila euro (nel sistema attuale, il passaggio all’ultima aliquota del 43% scatta da 75mila euro).

Non tanto per gli effetti reali di questa scelta, quanto più per l’illusione (in realtà solo ottica) di tassare allo stesso modo ogni incremento di reddito per chi guadagna intorno ai 50mila euro e per chi invece arriva, ad esempio, a 500mila. Saranno, infatti, le detrazioni d’imposta ad “ammorbidire” il passaggio all'aliquota massima per i redditi più vicini a quota 50mila.