Imposte

Multinazionali, dagli Usa il possibile conto alla Ue

Il problema della tassazione dei giganti del web visto dagli Stati Uniti. Il cost sharing permette alla associate di pagare tasse nei Paesi di insediamento

di Andrea Musselli

La tassazione dei giganti multinazionali del web ha scatenato feroci polemiche in Europa. Le imprese spesso pagavano esigui, se non nulli, importi nei Paesi dove vendevano i propri prodotti o servizi, sostenendo di rispettare il principio di libera concorrenza, quali condizioni che avrebbero stabilito parti indipendenti in circostanze simili. Le amministrazioni finanziarie europee, tra le quali quella italiana per esempio, hanno negli ultimi anni agito, con successo, affinché le stesse imprese pagassero le imposte sul reddito generato da attività di vendita (come avrebbero pagato possibili distributori indipendenti).

Tuttavia, le maggiori doglianze per mancate imposte sui redditi dai giganti multinazionali del web potrebbero venire dagli Stati Uniti.

Di recente autorevoli commentatori hanno affermato violazioni e mancate entrate fiscali e sanzioni per gli Usa di poche ma molto grandi multinazionali (la parte del leone la fanno sempre le imprese del web), arrivando a totalizzare una cifra vicina al bilione di dollari. Si tratta grosso modo della metà dell’attuale debito pubblico italiano: è una pretesa “fantasmagorica” e di gran lunga maggiore delle pretese europee. Come si arriva a ciò?

Ci si riferisce alla normativa sul cost sharing: condividendo i costi le imprese promettono di condividere i ricavi che tali costi genereranno nel futuro. Imprese con capogruppo statunitense con ricerche per nuovi prodotti o servizi hanno permesso a imprese associate europee (ma non solo) di entrare in contratti di condivisione degli investimenti. L’effetto è di convogliare nelle mani delle stesse associate europee gli ingentissimi profitti generati dalle vendite estere (rispetto agli Usa e persino dedotto il profitto per lo svolgimento di funzioni di vendita in Europa).

Quando una impresa entra in un cost sharing esistente deve pagare il prezzo dei diritti che sono messi a disposizione dai vecchi investitori (cosiddetto buy in). Si tratta di una vendita a tutti gli effetti dei vecchi partecipanti ai nuovi partecipanti l’accordo. Nel 1986 il Congresso Usa ha introdotto la regola legislativa che il prezzo dei beni immateriali deve riflettere gli utili che il bene genererà in futuro con l’uso (commensurate with income). Per alcuni questa regola (e forse anche nelle intenzioni del Congresso Usa, che prescindeva dal principio di libera concorrenza) si applica tenendo conto dei profitti effettivi che il bene genererà nel futuro (quasi senza eccezioni). Perciò gli ingenti profitti prodotti nel futuro facendo entrare nel cost sharing, per esempio, una consociata irlandese da parte di un gruppo americano avrebbero dovuto essere pagati come buy in dalla stessa consociata irlandese alla capogruppo Usa, con conseguente tassazione negli Usa e non in Irlanda. Questa interpretazione della normativa Usa del cosiddetto periodic adjustment of intangible price (aggiustamento annuale del prezzo dei beni immateriali) farebbe sì che l’amministrazione Usa (Us Irs) possa ancora recuperare fino a un bilione di dollari di tasse e sanzioni. Si tratterebbe di aggiornare oggi i prezzi dei buy in concordati anche molto tempo fa, cioè nei primi anni Duemila, sulla base dei profitti generati oggi (e in anni recenti) con l’uso dei beni allora messi a disposizione dalle consociate Usa.

Tuttavia l’amministrazione americana ha interpretato (perlomeno dal 2007) il periodic adjustment come se l’adeguamento ai profitti del prezzo di vendita degli immateriali (e dei buy in) sia in relazione ai profitti attesi (progettati, previsti) in modo più coerente con i Trattati internazionali (su base Ocse) che dispongono il principio di libera concorrenza; si entra perciò nel campo delle valutazioni economiche dove esiste una certa soggettività per le valutazioni effettuate sulla base previsioni di profitti futuri e magari incerti. Le stesse imprese passibili dell’adeguamento odierno dei buy in hanno ritenuto nel passato (al momento della valutazione) che i profitti che esse avrebbero potuto produrre nel futuro sarebbero eventualmente state frutto degli investimenti divisi tra i partecipanti al cost sharing e non degli investimenti precedenti (effettuati dalle sole consociate Usa). Le direttive Ocse sul transfer pricing del 2022 (ma anche precedenti) sono “conformi” alla normativa americana come interpretata dallo Us Irs , ove per le vendite di immateriali i profitti effettivi attuali possono essere solo una presunzione di quelli previsti in precedenza, lasciando la possibilità al contribuente di dimostrare il contrario. Tuttavia non è ben chiaro come possa avvenire la dimostrazione.

Le lacune normative (in senso tecnico) da colmare in via interpretativa lasciate nel passato su un aspetto così importante della normativa americana e anche Ocse sui prezzi di trasferimento (anche perché l’Ocse emana direttive solo con il consenso spesso di compromesso rispetto ad interessi contrastanti dei singoli Paesi) vengono ora al pettine, con rilevante incertezza sulla localizzazione dei profitti attuali delle multinazionali. Come si vede si tratta di un campo nel quale le cifre possono essere ingentissime, tali da potersi paragonare anche ai deficit/debiti pubblici di Nazioni sovrane altamente sviluppate.

Le stesse lacune presenti oggi potranno provocare, se non risolte, rilevante incertezza e così differenti vedute e valutazioni su possibili rilevantissimi profitti che potranno generarsi nel futuro.

Una maggiore certezza sulla localizzazione dei profitti potrebbe darsi con l’esecuzione degli accordi internazionali sul principio del Paese di vendita di cui al Pillar one dell’Ocse. Ma questa è tutta una storia ancora da vedere.

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