Imposte

La border tax strisciante che irrita le multinazionali

di Marco Valsania

La riforma americana del fisco non è ancora sulla scrivania per la firma di Donald Trump e Camera e Senato devono ancora risolvere le loro differenze. Ma all’euforia per gli sgravi che ha contagiato la maggioranza repubblicana e la Casa Bianca fanno da contraltare le preoccupazioni di chi teme che il maxi-progetto, salvo sostanziali ritocchi e compromessi considerati poco probabili, rischi di essere mal concepito, sia sul fronte interno che internazionale: scatena dure polemiche domestiche per gli spettri di eccessivi deficit, che potrebbero generare squilibri economici e far scattare in futuro nuovi tagli forzati alla spesa sociale, e di una architettura “regressiva” troppo generosa con i più abbienti e non invece con i ceti medio-bassi.

Ma minaccia anche, qualora non ci siano cambiamenti in extremis, di diventare un nuovo casus belli degli strappi con il mondo del presidente Trump. In questo caso con il mondo del business globale. Due provvedimenti contenuti uno nella versione approvata dalla Camera e uno nel testo varato dal Senato, in maniera diversa, fanno dormire sonni assai poco tranquilli ai vertici di aziende straniere e multinazionali, che temono un impatto negativo sulla loro attività in nome di America First.

Entrambe le formule, quella del Senato in modo più morbido, fanno tornare alla mente di numerosi executive sospetti di border tax striscianti, di imposte di malcelata impronta nazionalista che potrebbero scontrarsi con le necessità di una supply chain oggi senza confini e persino con le regole condivise del commercio internazionale e degli organismi che lo governano.

L’Unione europea è nervosa, se non in allarme. «Monitoreremo attentamente» e «con analisi approfondite» l’impatto della riforma, sul deficit statunitense e sulle normative globali per le imposte ha fatto sapere il Commissario alla fiscalità della Ue Pierre Moscovici. «Non discutiamo il pieno diritto degli Stati Uniti di decidere le loro aliquote fiscali - ha precisato Moscovici - ma dobbiamo anche tener conto di quali siano gli effetti del deficit statunitense e se ci sono effetti di contagio sulle modalità nelle quali consideriamo la tassazione a livello mondiale». Una prima discussione avverrà oggi durante un previsto incontro dei ministri delle Finanze dell’Unione.

La Camera contiene quella che viene definita una “excise tax” (accisa) - fino al 20% - che colpirebbe un gruppo straniero che vende beni o servizi negli Stati Uniti attraverso una controllata locale.

Aziende statunitensi globali verrebbero a loro volta colpite, ad esempio le case automobilistiche che importano componenti. Nella versione più dolce adottata dal Senato - il ramo del Parlamento più moderato - prende il nome meno inquietante di “Base erosion anti-abuse tax”. È una minimum tax del 10% che può scattare a fronte di pagamenti a favore di controllate o case madri all’estero.

Il minor impatto sulla carta però non tranquillizza. Una società come la tedesca Siemens ha già denunciato che nessun Paese ha sistemi simili. E perplessità su confusione e difficoltà di navigare il nuovo sistema sono filtrate sulle pagine della bibbia del business americano, il Wall Street Journal.

La continua evoluzione sui dettagli incoraggia alcuni esperti. Stefano Schiavello, responsabile dell’Us Desk di STS Deloitte, sostiene che «per i gruppi esteri la versione del Senato è più vantaggiosa perché la base erosion tax (di fatto una minimum tax pari al 10% dell’imponibile al lordo di qualsiasi costo intercompany, con la sola eccezione degli acquisti di beni-merce) riguarda solo le società Usa con fatturato superiore ai 500 milioni di dollari».

Schiavello ricorda che il testo della Camera è più punitivo. «L’excise tax del 20% sui pagamenti intercompany, che può essere evitata qualora la società estera opti per tassazione negli Usa dell’utile netto realizzato sulla transazione, si applicherebbe invece alle società Usa che ricevono addebiti intercompany superiori a 100 milioni nell’arco di un triennio, potenzialmente un numero ben superiore di soggetti. È quindi auspicabile, quantomeno per i gruppi italiani di minori dimensioni, che in sede di “riconciliazione” tra provvedimenti prevalga il Senato». O una versione ancora meno controversa.

Le polemiche fervono anche sulla riforma quale grande volano di crescita che copra tutte le pecche. Mickey Levy di Berenberg scommette che stimolerà un Pil al 2,9% nel 2018, investimenti fissi aziendali a passo raddoppiato al 6,6%, disoccupazione al 3,9 per cento. Gli scettici vedono stimoli minimi alla crescita e regalie a classi di grandi donatori repubblicani.

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