Diritto

Piani di ristrutturazione, se l’attestazione è ok il giudice non fa altre verifiche di attuabilità

Il tribunale non deve svolgere valutazioni ulteriori rispetto a quelle del professionista

di Giovanbattista Tona

Il tribunale fallimentare deve verificare che l’accordo di ristrutturazione dei debiti stipulato dall’imprenditore in crisi con i creditori rispetti i presupposti di legge e garantisca la concreta attuabilità del piano. Non deve però svolgere una valutazione ulteriore rispetto a quella contenuta nella relazione attestatrice del professionista incaricato della verifica sulle concrete prospettive di realizzo, sempre che non siano state proposte opposizioni da parte dei creditori.

Il tribunale non può inoltre negare l’omologazione per inadempimenti di carattere formale o per il mancato rispetto di termini perché la procedura prevista dall’articolo 182 bis della legge fallimentare non è caratterizzata da preclusioni rigide o da espresse sanzioni di decadenza.

Così la sentenza della Corte di appello di Milano del 14 gennaio 2022 disegna i limiti del sindacato del Tribunale sugli accordi di ristrutturazione dei debiti e ne sottolinea la natura prevalentemente privatistica.

Anche la Cassazione con sentenza 40913 del 21 dicembre 2021 aveva affermato - al fine di stabilirne l’assoggettabilità ad imposta di registro - che tali accordi, benché parte di una procedura di natura concorsuale, costituiscono atti di autonomia negoziale che producono gli effetti del contratto ai sensi dell’articolo 1372 del Codice civile fin dalla stipula, con differimento al momento della pubblicazione nel registro delle imprese solo di quelli conseguenti all’omologazione.

La validità della Pec

Su questa stessa linea i giudici milanesi hanno qualificato l’accordo di ristrutturazione (articolo 182 bis della legge fallimentare) come un contratto che si perfeziona per effetto del consenso tra le parti, raggiunto senza specifiche formalità ma con le modalità previste dall’articolo 1326 del Codice civile, sostanzialmente riconducibili alla conoscenza dell’accettazione da parte di chi ha fatto la proposta. In coerenza con l’intento semplificatorio della procedura, quindi, la Corte di appello ha ritenuto non corretta la valutazione del Tribunale che aveva negato l’omologazione di un accordo perché i creditori aderenti avevano trasmesso la sottoscrizione della proposta via Pec, senza farla autenticare e senza recarsi dinanzi a un notaio.

Poiché la Pec è un valido strumento identificativo dei contraenti e per l’accordo non sono previsti vincoli di forma, la Corte di appello ha concluso che il Tribunale avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto dell’adesione comunque certa di almeno il 60% dei crediti, soglia fissata dall’articolo 182 bis della legge fallimentare.

La concreta attuabilità

I giudici milanesi, tuttavia, sembrano trarre un’ulteriore conseguenza dalla prevalente natura privatistica dell’accordo riguardo la verifica sulla sua concreta attuabilità.

Fino alla sentenza 12064 dell’8 maggio 2019, la Cassazione ha insistito sulla comune natura di procedura concorsuale di accordo di ristrutturazione e concordato preventivo, per concludere che il Tribunale è tenuto a verificare tutti gli aspetti di legalità sostanziale e1 tra questi anche quelli inerenti la effettiva garanzia di soddisfacimento dei creditori estranei all’accordo nei tempi previsti per legge.

La Corte lombarda, pur richiamando quest’ultimo orientamento, ha ritenuto precluso, in assenza di opposizioni, il controllo sulla valutazione contenuta nella relazione attestatrice, se plausibile e completa, e sui profili di convenienza economica, in quanto gli aderenti, nell’ambito dell’autonomia privata che l’ordinamento riconosce loro, hanno già valutato preferibile quella soluzione, mentre per i creditori rimasti estranei è sufficiente che l’accordo garantisca la loro integrale soddisfazione. In ogni caso, il terzo estraneo all’accordo insoddisfatto può avanzare istanza di fallimento, a prescindere dalla risoluzione dell’accordo omologato, perché non vincolato dagli effetti dell’omologazione (Cassazione, 13850/2019).

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