Riassetti a realizzo controllato, il nodo dei valori correnti
Aperture e chiusure nelle risposte delle Entrate sui conferimenti di quote. Qualificare la norma come «di sistema» precluderebbe l’interpello disapplicativo
Tra le quasi 200 risposte a interpello già diramate a gennaio (in rapporto alle circa 600 dell’intero 2022), le numero 4 e 5 parlano in maniera diretta agli operatori coinvolti nelle riorganizzazioni societarie e familiari.
Nelle risposte si leggono conferme e chiarimenti utili in relazione alle operazioni di conferimento in regime fiscale di realizzo controllato ex articolo 177, comma 2-bis, del Tuir. La norma, introdotta nel 2019 dal decreto Crescita (Dl 34/2019), ha esteso il regime del “realizzo controllato” ai conferimenti di “minoranza qualificata” ed è molto efficiente nelle riorganizzazioni di gruppi imprenditoriali a matrice familiare (multi-ramo e multi-generazione).
Nella risposta 4, la società scambiata (Alfa) è una holding. Perciò, il comma 2-bis citato richiede che le percentuali minime di accesso al regime (cioè diritti di voto superiori al 20% o partecipazione al capitale superiore al 25%, percentuali ridotte al 2%-5% per le quotate) siano verificate per tutte le società che svolgono attività di impresa indirettamente partecipate, tenendo conto dell’effetto demoltiplicativo. L’Agenzia, innanzitutto, chiarisce che anche le società di gestione immobiliare ricadono nell’ambito della verifica, in quanto la norma richiama la nozione ampia di commercialità di cui all’articolo 55 del Tuir e non la definizione dell’articolo 87 valevole ai fini Pex. Restano, invece, esclusi dalla verifica i consorzi, in quanto formalmente privi delle veste giuridica societaria.
La risposta 5 interviene sulla definizione di “holding” da assumere ai fini del comma 2-bis e conferma l’impostazione a valori correnti fornita nella risposta 869/2021, in luogo dei criteri contabili dettati dall’articolo 162-bis del Tuir. L’Agenzia chiarisce che il valore corrente delle partecipazioni deve essere rapportato al totale dell’attivo di bilancio (sempre espresso a valori correnti). Puntualizzazione apprezzabile, ma è l’impostazione basata sui valori correnti a non convincere del tutto. Infatti l’articolo 162-bis, benché non espressamente richiamato dal comma 2-bis, contiene una definizione generale di holding, valevole a tutti effetti nell’ambito delle imposte sui redditi (nonché dell’Irap), come riconosce la stessa Agenzia. L’entrata in vigore dell’articolo 162-bis è precedente a quella del comma 2-bis e pertanto, se il legislatore avesse voluto derogare, avrebbe dovuto inserire in quest’ultima disposizione una definizione specifica rispetto a quella generale già in vigore. L’Agenzia richiama, invece, l’articolo 87, comma 5, del Tuir che individua i requisiti ai fini Pex (residenza e commercialità) e per le holding impone un test patrimoniale a valori correnti. Un richiamo che appare incongruo, perché attribuisce portata generale a una disciplina specifica quale la Pex.
Al di là delle diverse considerazioni di tipo interpretativo, la criticità più rilevante riguarda gli aspetti pratici. L’impostazione a valori correnti implica, infatti, valutazioni d’azienda complesse e la predisposizione di perizie, con un inevitabile elemento di soggettività e aggravio di costi. L’Agenzia, peraltro, non dà alcuna indicazione sui metodi di valutazione, con il rischio che – una volta effettuata l’operazione – la società scambiata sia riqualificata come holding cui applicare la regola della demoltiplicazione, con conseguente disconoscimento del realizzo controllato.
Nella medesima risposta n. 5, l’Agenzia afferma, per la prima volta, che la disposizione sulle holding dettata dal comma 2-bis «non rappresenta una norma antielusiva poiché si qualifica come norma di sistema». Anche questa conclusione suscita qualche perplessità. La norma, infatti, lascia intendere una ratio propriamente antielusiva, volta a evitare che le percentuali minime di diritti di voto e di partecipazione vengano “aggirate” grazie alla presenza di una holding.
Al contrario, la qualifica di “norma di sistema” non consentirebbe di ricorrere allo strumento dell’interpello disapplicativo (riservato invece alle sole norme a carattere antielusivo). La disapplicazione rappresenta – a parere di chi scrive – uno strumento prezioso in mano all’Agenzia per valorizzare tutte quelle situazioni che rispondono alla ratio di favorire i passaggi generazionali, ma non rispettano i requisiti formali della demoltiplicazione. Tipico esempio sono le partecipazioni di scarsa caratura iscritte nel circolante delle holding, che rappresentano investimenti temporanei di liquidità, e le holding di società quotate, la cui fluttuazione dei corsi azionari renderebbe ulteriormente complessa l’applicazione del principio dei valori correnti. Da ultimo e più in generale non bisogna dimenticare che nell’alveo delle società qualificate come holding sulla base dei valori correnti, con tutte le difficoltà segnalate, la stessa potrebbe svolgere anche un’effettiva attività produttiva o commerciale. In questi casi, così come in caso di partecipazioni indirette residuali o detenute per esigenze di settore, appare improbabile un aggiramento delle soglie minime.
Negare, in definitiva, la possibilità di interpello disapplicativo, in prospettiva, potrebbe limitare l’utilizzo dei conferimenti di partecipazioni per molte realtà imprenditoriali. Ciò in evidente contrasto con lo spirito della disciplina, volta a tutelare e valorizzare le imprese familiari mediante operazioni di riorganizzazione fiscalmente efficienti.