Diritto

Dlgs 231, il caso Airbus fa riflettere sulla messa alla prova delle imprese

Il Tribunale di Parigi ha convalidato una Convenzione giudiziaria che impedisce l’esercizio dell’azione penale a patto che la società attui un programma di ripristino della legalità

di Luca Luparia Donati

La chiusura in Francia del secondo capitolo del caso Airbus può suggerire una riflessione sull’introduzione, anche in Italia, di forme di probation per l’impresa accusata nel contesto del Dlgs 231/2001, prima fra tutte la messa alla prova dell’ente, la cui esclusione è stata ribadita dalla Cassazione il 27 ottobre scorso (informazione provvisoria 17/2022).

Il Tribunale giudiziario di Parigi, il 30 novembre, ha infatti convalidato una Convenzione giudiziaria di interesse pubblico (CJIP) a termine dell’indagine aperta nel 2016 contro il costruttore europeo di aerei, sospettato d’uso irregolare di consulenti per garantirsi appalti nel settore dell’aviazione civile.

La Convenzione, stipulata tra il Parquet national financier (Pnf) e Airbus (ai sensi degli articoli 41-1-2 e 180-2 del Codice di procedura penale francese) per i presunti fatti di corruzione in Libia e Kazakistan, rappresenta l’estensione di una precedente Convenzione giudiziaria del 2020, in base alla quale il colosso dell’aeronautica si era già impegnato a pagare un’ammenda di circa 2 miliardi di euro e a sottoporsi a un “programma di conformità” di 3 anni sotto la supervisione dell’Agenzia anticorruzione.

Si arricchisce così la giurisprudenza sull’istituto, d’ispirazione nordamericana e introdotto in Francia nel 2016, che consente al Procuratore della Repubblica di proporre alla società accusata dell’illecito un accordo:

- sul versamento al Tesoro di una sanzione (proporzionale ai vantaggi ottenuti dalle violazioni, fermi alcuni limiti relativi al fatturato);

- sulla sottoposizione a un programma di ripristino della legalità;

- sull’indennizzo alle persone offese.

L’esecuzione integrale degli obblighi previsti dalla Convenzione giudiziaria impedisce l’esercizio della pretesa punitiva, senza una diretta ammissione di responsabilità dell’ente.

Secondo le voci più critiche, tali accordi post factum rischiano di trasformare la magistratura inquirente in un “regolatore atipico” che interferisce sulla governance degli enti, ledendo il principio di uguaglianza (già a rischio in modelli, come quello francese, caratterizzati dalla discrezionalità dell’azione penale).

Innegabilmente, però, simili meccanismi, come accade negli Usa con i deferred prosecution agreements, danno vita a una tecnica di controllo della criminalità d’impresa assai interessante. Per le aziende, anzitutto, che possono così dissociarsi dalle sorti processuali delle persone fisiche ed evitare tutte le implicazioni, compreso il correlato stigma mediatico, di un processo che, in caso negativo, comporterebbe condanne pesanti, se non vere e proprie “pene di morte aziendali”.

Ma è sul piano della tutela dei beni giuridici che si colgono i risultati più significativi: il ravvedimento operoso, la cui effettività è assicurata dal controllo penetrante della autorità, realizza gli obiettivi di prevenzione speciale in chiave rieducativa cui ambiscono tutte le moderne strategie di contrasto al corporate crime.

Dall’esempio francese arriva dunque lo stimolo, se non a patrocinare senza riserve analoghe soluzioni transattive, quanto meno a riconsiderare l’ammissibilità di istituti (come quello della messa alla prova) la cui ratio va ricondotta, oltre alle finalità deflattive, al “reinserimento sociale” della persona giuridica, tramite riorganizzazione virtuosa dell’attività economica e a riflettere sui vantaggi del cosiddetto monitoring, svolto sotto il controllo della pubblica autorità, capace di determinare l’impunità all’azienda che si riveli (anche se in un momento successivo alla commissione del reato) del tutto in linea con gli standard di legalità richiesti. Forse il miglior viatico, oggi, per progettare un capitalismo trasparente ed eticamente motivato.

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