Diritto

Concordato liquidatorio, i casi in cui è ammessa la prosecuzione dell’attività

Il Codice della crisi affronta anche il caso in cui la continuazione non serve a conservare il complesso produttivo, ma solo a limitare il danno economico causato dalla chiusura

di Marcello Tarabusi

Non sempre la prosecuzione dell’attività nel concordato costituisce «continuità aziendale»: il Codice della crisi prevede anche casi di flussi della continuità nell’ambito di piani liquidatori, ai quali dovrebbe applicarsi la disciplina del concordato liquidatorio, con qualche correttivo.

Una delle principali novità della riforma del diritto concorsuale è la netta distinzione tra concordati liquidatori e concordati in continuità, con un regime penalizzante per il primo tipo (apporto esterno con incremento dell’attivo di almeno il 10% e pagamento ai chirografari non inferiore al 20 per cento). Netto invece il favor per i piani con continuità aziendale, senza percentuali minime.

La classificazione nell’una o nell’altra categoria determina quindi un trattamento molto diverso delle proposte fatte ai creditori, tra cui la possibilità di distribuire il surplus derivante dalla continuità secondo il criterio di priorità relativa e non assoluta (salvi i diritti dei lavoratori). È allora molto importante il definire correttamente il criterio per distinguere le due fattispecie.

Come molti commentatori hanno sottolineato, l’articolo 84, comma 3, codifica l’orientamento della Cassazione, ammettendo la continuità indiretta (mediante affitto o cessione dell’azienda) e sancendo che basta «una componente di qualsiasi consistenza di prosecuzione dell’attività aziendale» (Cassazione 734/2020).

Vi sono però due disposizioni che sembrano ammettere la prosecuzione dell’attività anche nel concordato liquidatorio: l’articolo 95, comma 2, che consente il completamento delle commesse pubbliche «anche nell’ipotesi in cui l’impresa sia stata ammessa al concordato liquidatorio»; e l’articolo 99, comma 1, che ammette i finanziamenti prededucibili quando è prevista la continuità «anche se unicamente in funzione della liquidazione». Non pare che tali disposizioni si riferiscano al caso ovvio, del debitore che conserva la gestione interinale prima della vendita dell’azienda: in tal caso, infatti, si tratterebbe pur sempre di un concordato in continuità, seppur indiretta.

Gli articoli 95 e 99 del Codice della crisi parlano, invece, di piani che restano liquidatori, nei quali tuttavia l’attività prosegue. È allora necessario tracciare una chiara distinzione tra piani liquidatori e piani con continuità.

Un criterio ragionevole pare quello fondato su sopravvivenza o disgregazione dell’organismo aziendale: ritenendo liquidatori quei piani in cui la prosecuzione dell’attività (o di singole commesse) non siano destinate alla conservazione del complesso produttivo, ma a limitare il danno economico della sua disgregazione.

Si possono fare vari esempi, in aggiunta al caso – espressamente previsto – di appalti pubblici in corso (facilmente estensibile in via analogica a commesse private):

- gli impianti (ad esempio un altoforno o un fotovoltaico) che possono spegnersi solo in modo graduale;

- nella moda, un’azienda destinata alla chiusura (magari per cedere solo il marchio) potrebbe avere, all’ingresso in procedura, una stagione in consegna, una in produzione e la terza con il campionario già fatto.

La qualificazione di simili piani come liquidatori puri porta a concludere che in tali procedure non sarebbero ammesse le ristrutturazioni trasversali, né la distribuzione secondo la priorità relativa, e si applicherebbero i limiti di incremento dell’attivo e soddisfazione minima. Il piano dovrebbe però illustrare i flussi attesi dalla continuità, come richiesto dall’articolo 87 comma 1 lettera f); il professionista (articolo 87 comma 3) non dovrà attestare che il piano impedisce o supera l’insolvenza, ma dovrà comunque confermare la sostenibilità di quei flussi.

Nei casi dubbi, non potendo basarsi sul criterio di prevalenza dei flussi, probabilmente giocherà un ruolo determinante il fattore tempo: potranno dirsi in continuità solo in piani che estendono la prosecuzione dell’attività per almeno 12 mesi dall’omologa, secondo il termine è previsto dalla definizione di crisi di cui all’articolo 2 lettera a) del Codice.

Se si vuole adottare un approccio più rigoroso, si può far riferimento alla durata minima di 24 mesi prevista per il contratto concluso con l’assistenza dell’esperto (articolo 23 comma 1 lettera a).

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