Avvisi sulle società a base ristretta: così cambia la difesa
Prestiti dei soci e aumento del «circolante» possono giustificare l’uso dei profitti
La questione degli accertamenti per le società a ristretta base societaria affonda le proprie origini non in una disposizione normativa ma in una “presunzione giurisprudenziale”. Specie la Cassazione ha elaborato un orientamento che associa la rideterminazione del reddito societario accertato dall’Agenzia (si veda anche la Ctr Lombardia, sez. Brescia, 1819/25/2017), con l’attribuzione dello stesso pro quota ai soci (Ctr Abruzzo 141 del 4 marzo 2022 e Cassazione, pronunce 20806/2013 e 923/2016). In particolare, i giudici di legittimità hanno sancito che «in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di società a ristretta base sociale, è legittima la presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati», (Cassazione 32959/2018) a prescindere dall’aver concluso il periodo d’imposta con una perdita.
A tal proposito, si è elaborato un principio di diritto secondo cui «la mera deduzione del profilo per cui l’esercizio sociale ufficiale si sia concluso con perdite contabili non è sufficiente a vincere la presunzione di distribuzione ai soci degli eventuali utili extracontabili accertati» (la cosiddetta “prova rafforzata”, Cassazione, sentenze 18640/2008, 18042 e 23247 del 2018, 34282/2019 e 15985/2020).
Tuttavia, si ammette la possibilità di superare la presunzione di cui sopra, da un lato per il socio dimostrando la sua totale estraneità alla gestione dell’impresa (Ctr Puglia, 961/26/2022) e dall’altro permettendo di provare – lato società – che l’extraprofitto sia stato accantonato o reinvestito (Cassazione 32959/2018 e 37193/2021; Aidc 198/2017).
Tale orientamento presuntivo con l’introduzione dell’articolo 7, comma 5-bis del Dlgs 546/1992 – si veda anche il documento di ricercadella Fnc-Cndcec «L’onere della prova nel processo tributario» del 14 dicembre scorso – dovrebbe essere ora a carico dell’Amministrazione finanziaria per tutti i giudizi tuttora pendenti (Sezioni unite 26283 del 6 settembre scorso), dovendo la stessa Amministrazione dimostrare «in modo circostanziato e puntuale» la «prova contraria circa un diverso impiego degli utili» (Cassazione, sez. V, 27708 del 22 settembre scorso).
Innanzitutto, sia per gli accantonamenti sia per il concetto di reinvestimento, l’utile extracontabile – e, quindi, la liquidità generatesi non tassata – debba necessariamente fuoriuscire all’esterno del perimetro societario. Quindi, il mancato transito dell’utile dall’impresa al socio avviene dimostrando che l’utile sia stato impiegato nell'impresa (contra la sentenza della Ctr Veneto 1099/5/2019). Infatti, il profitto deve restare in azienda con la necessità che la liquidità – riferibile al comportamento fiscale illecito – sia stata, nell’esercizio accertato, “accantonata” o “investita” nella società. Le due dizioni (accantonamento e reinvestimento) sono originate dalla tecnica contabile in cui l’accantonamento rappresenta, pur nella sua genericità, una liquidità per un impiego futuro mentre il reinvestimento è rappresentativo di una decisione aziendale che abbia decretato l’uscita finanziaria definitiva dell’utile dal capitale circolante netto.
Ora adattando le definizioni ai casi concreti, non vi è dubbio che per accantonamento si potrebbe individuare un finanziamento soci (Cassazione 40174/2021) dove la liquidità derivante da ricavi non contabilizzati sia stata introdotta all’interno del capitale circolante netto dell’impresa per un evidente squilibrio finanziario fra i costi sostenuti e contabilizzati per l’ottenimento del componente positivo mai transitato dal conto economico. Ovviamente vi dovranno essere delle simmetrie quantitativo-temporali fra quanto non dichiarato e il finanziamento stesso. Identici sono i casi concernenti i costi oggettivamente inesistenti o spese non inerenti dove la ripresa fiscale dovrebbe essere neutralizzata dal prestito soci.
Più complesso si presenta il caso per i costi accertati indeducibili (ad esempio fatture oggettivamente inesistenti) ma non pagati in cui il beneficio illecito sarebbe pari all’Iva detratta e all’Ires e Irap non conteggiata (Cassazione, sez. V, 29253 del 7 ottobre scorso): in questa fattispecie, sarebbe necessario calcolare il reinvestimento sulle immobilizzazioni e/o il miglioramento sul capitale circolante netto. Il capitale circolante netto è da considerare anche ai fini fiscali un investimento a breve termine dove la liquidità generata dall’illecito abbia consentito all’impresa, ad esempio di acquistare maggiori materie prime, finanziando un incremento del magazzino rispetto al periodo precedente.
È evidente, quindi, come la prova della mancata percezione degli utili passi anche dall’utilizzo del profitto ottenuto, con la considerazione che una ulteriore possibilità di difesa sia l’impiego – come prova a favore per il socio – del rendiconto finanziario d’esercizio (ex articolo 2425-ter del Codice civile) “normalizzato” ed implementato con le singole riprese fiscali accertate.