Controlli e liti

Bene lo Statuto ma ora serve il Codice delle imposte

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di Gianni Marongiu

Lo Statuto dei diritti del contribuente, approvato con la 212 del 27 luglio 2000 e in vigore dal 1° agosto dello stesso anno, compie quindici anni. E, a dispetto di molti luoghi comuni, mostra tutta la sua vitalità.I principi fondamentali fissati dallo Statuto sono infatti oggetto delle continue riflessioni della dottrina e trovano quotidiana e concreta applicazione da parte delle Commissioni tributarie e della Corte di Cassazione. Si pensi a principi della buona fede e dell'affidamento applicati anche alla debenza delle imposte (Cassazione, sentenza 21513 del 2006); oppure all'emendabilità degli errori, anche processuali (Cassazione Sezioni unite, sentenza 15063/2002 e Cassazione, sentenze 4773/2009 e 9505/2010).

Senza dire del fatto che proprio perché lo Statuto, in applicazione degli articoli 3, 23, 53 e 97 della Costituzione (una novità assoluta quest'ultimo riferimento), detta i princìpi generali dell'ordinamento tributario «il dubbio interpretativo o applicativo sul significato e sulla portata di qualsiasi disposizione tributaria deve essere risolto nel senso più conforme ai princìpi tributari» (Cassazione, sentenza 17576/2002).Certo, non tutto è come dovrebbe essere. Il legislatore usa e abusa del decreto legge. Spesso tenta di mortificare il sacrosanto principio della irretroattività della legge e della legge tributaria. Ma è giusto ricordare che la Corte di Cassazione vi si oppone (Cassazione, sentenza 6745/2015) e il giudice delle leggi ripristina le regole violate (Corte costituzionale, sentenza 525/2000), proprio in virtù dei principi dello Statuto. A confutazione degli scettici e a dimostrazione del fatto che non valgono tanto il conteggio delle violazioni dello Statuto ma la capacità dell'ordinamento e dei protagonisti della vita giudiziaria di reagire e di porvi rimedio.

Ovviamente nulla impedisce di pensare a una costituzionalizzazione di alcune norme dello Statuto, anche se non certo di tutte.

L'Europa, infatti, riderebbe se venisse a sapere che, in Italia, per garantire l'interpello, la compensazione tra debiti e crediti, la motivazione degli accertamenti eccetera occorre una legge costituzionale. Le norme suscettibili di una riformulazione costituzionale sono solo due e riguardano l'abuso del decreto legge e la retroattività. Per evitare l'uno e l'altro vulnus alla certezza si può prevedere una lieve modifica letterale all'articolo 23 della Costituzione e un comma aggiuntivo all'articolo 77. L'articolo 23 potrebbe essere riscritto nel seguente modo: «Nessuna prestazione patrimoniale o personale può essere istituita se non in base alla legge che non può avere efficacia retroattiva». Il comma aggiuntivo all'articolo 77 potrebbe essere così formulato: «Con decreto legge si possono istituire solo tributi straordinari, vigenti per non più di un anno, per provvedere a esigenze straordinarie e urgenti e si possono altresì aumentare o diminuire le aliquote anche dei tributi ordinari; non si può, invece, disporre l'istituzione di nuovi tributi ordinari, né prevedere l'applicazione di tributi esistenti ad altre categorie di soggetti passivi, né mutare le discipline accertative e procedimentali dei tributi ordinari».

Un bilancio, peraltro, non può fermarsi alla registrazione del successo di una legge ordinaria (perché tale è lo Statuto), ma deve andare oltre, com'era nell'intento dei suoi propugnatori.Riprendendo le indicazioni date da Ezio Vanoni in Assemblea costituente, essi, infatti, considerarono e considerano una legge di princìpi come l'avvio di un progetto di codificazione almeno della disciplina dell'accertamento, della riscossione, delle sanzioni e del processo.

Il Parlamento si attivò in questo senso con la legge delega n. 80 del 2003, ma il governo lasciò cadere questa virtuosa iniziativa.Un codice tributario, oggi, darebbe certezza ai contribuenti (sul quando, sul quanto, sul come pagare le imposte), favorirebbe gli investimenti stranieri (spaventati dalla quotidiana mutevolezza delle norme), agevolerebbe il lavoro della burocrazia finanziaria, ridurrebbe i costi dell'obbedienza fiscale. Insomma, una grande e utile riforma di civiltà giuridica “a costo zero”.

Ma per realizzare questo obiettivo il Parlamento deve trovare l'orgoglio e la capacità di tornare a essere il protagonista nell'elaborazione della disciplina dei tributi come è stato e come deve essere.

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