Crediti d’imposta, come uscire dall’automatismo dell’inesistenza
Troppe e pericolose rigidità caratterizzano il regime sanzionatorio dell’indebita compensazione di crediti d’imposta, soprattutto se si considerano le complesse e articolate interazioni tra conseguenze amministrative e penali. Infatti, a fronte di una ambigua formulazione normativa, la sanzione dell’inesistenza del credito ha manifestato una forte tendenza a invadere campi ben diversi da quelli nei quali il legislatore aveva inteso confinarla. E ciò con l’inevitabile effetto di “ingolfare” ulteriormente la già intasata giustizia tributaria e – conseguenza ancor più indesiderabile – scoraggiare fortemente le stesse condotte virtuose che con i crediti d’imposta si intendono premiare. È del resto cosa nota che contestare un credito fiscale indebitamente fruito come «inesistente» è ben diverso dal qualificarlo come semplicemente «non spettante». La diversità riguarda anzitutto il versante amministrativo. Nella prima ipotesi, infatti, le sanzioni sono più gravose (dal 100 al 200%, anziché 30%) e maggiori sono le penalizzazioni relative ai tempi di accertamento e all’accesso agli istituti deflativi del contenzioso.
Il profilo più delicato attiene, però, all’ambito delle conseguenze extrafiscali, giacché le indebite compensazioni annuali di crediti fiscali superiori a 50mila euro sono sempre penalmente rilevanti, ma la pena è certamente più significativa se si contesta l’inesistenza (da 18 mesi a 6 anni di reclusione) in luogo della non spettanza (da 6 mesi a 2 anni). Inoltre, nella prima ipotesi non è neppure invocabile la causa di non punibilità per intervenuto pagamento del debito tributario prima dell’apertura del dibattimento di primo grado. Insomma, poiché accettare (e pagare per) una contestazione di inesistenza rappresenta solo un’attenuante e non una causa di non punibilità, diversamente dalla non spettanza, si determina una asimmetria che accresce l’incentivo a resistere e alimenta, così, un contenzioso talvolta evitabile.
Il punto, più generale, è che l’attuale formulazione normativa (i commi 4 e 5 dell’articolo 13 del Dlgs 471/1997) appare troppo debole nell’individuare e distinguere adeguatamente le condotte da contrastare in modo più grave (i.e. l’inesistenza del credito) da quelle che potrebbero derivare da meri errori o differenze di valutazione. Il richiamo normativo alla mancanza dei presupposti costitutivi del credito fa privilegiare, con un irrazionale automatismo, la censura d’inesistenza anche per fattispecie d’incerta valutazione tecnica e, comunque, estranee alle condizioni di fraudolenza e insidiosità che in teoria dovrebbero giustificare la più grave contestazione di inesistenza. Si pensi al contesto, assai diffuso, del credito d’imposta per ricerca e sviluppo, così come agli altri crediti 4.0 (quello per la formazione 4.0, per gli investimenti industria 4.0 ecc.), l’individuazione dei cui presupposti lascia aperte inevitabili zone grigie e per i quali, peraltro, la legge già prescrive significativi obblighi documentali e di certificazione esterna.
È evidente quanto discriminatorio e poco comprensibile sia trattare allo stesso modo un contribuente che non ha mai posto in essere l’attività che dà diritto al credito (falsificandone la relativa documentazione contabile) con un altro che, viceversa, l’ha concretamente posta in essere, tuttavia considerando ricerca ciò che l’Amministrazione finanziaria (o il Mise, previamente interpellato da quest’ultima) reputa poco innovativo, confrontandosi in un ambito di valutazioni tecniche e insopprimibilmente incerte. In contesti come quelli segnalati la diversità di opinioni risulta in qualche modo fisiologica e non testimonia necessariamente una fraudolenza tale da autorizzare l’accusa di voler sfruttare crediti inesistenti.
Si deve allora condividere l’allarme lanciato a più riprese da Assonime e il correlato auspicio che gli atti di recupero dei crediti d’imposta non si risolvano in una automatica censura di inesistenza, priva di una reale valutazione casistica del comportamento individuale. In assenza, esponendo il contribuente a rischi, anche penali, non del tutto controllabili, l’utilizzo di crediti d’imposta, anche modesti (di poco superiori a 50mila euro), può generare il più classico effetto boomerang e comportare l’esito opposto (disincentivo a investire) rispetto a quello che giustifica la loro istituzione normativa. Il tutto, peraltro, in un momento di grave crisi, nel quale lo strumento dei crediti fiscali è stato ampiamente impiegato dal legislatore per sostenere imprese al limite del collasso.
C’è da riconoscere che, di recente, la stessa Agenzia delle entrate (circolare n. 31/E/2020) ha mostrato coscienza della necessità di distinguere, riconoscendo – a certe condizioni – il diritto alla riduzione sanzionatoria per obiettiva sproporzione. Tuttavia, ciò non nega e anzi presuppone la contestazione di inesistenza anche nelle “aree grigie” di valutazione dei presupposti costitutivi dei crediti fiscali, con ogni conseguenza pregiudizievole per i contribuenti interessati, soprattutto sul versante penale, e, in una prospettiva ex ante, sul loro incentivo a investire.
Spetta, allora, al legislatore sbrogliare la matassa, con un intervento chiarificatore che sappia adeguatamente “cernere la farina dalla crusca”. Vanno fissati per legge criteri puntuali che, scongiurando l’automatismo dell’inesistenza, confinino tale ipotesi alle sole fattispecie più insidiose e maggiormente patologiche, quali quelle di costruzione fittizia delle condizioni (anche documentali) del credito, di carenze dei presupposti applicativi ictu oculi evidenti e/o di integrale assenza della documentazione e certificazione esterna richiesta dalla legge. È il minimo sindacale per un sistema sanzionatorio realmente rispondente a quei principi di proporzionalità a cui già oggi esso dovrebbe necessariamente informarsi.