Il CommentoControlli e liti

Credito d’imposta ricerca e sviluppo, va limitata la discrezionalità dell’amministrazione

Non si può parlare di carenza in radicedel presupposto quando sono contestati i fondamenti tecnici del beneficio fiscale

di Enrico De Mita

L’imposizione, nel sistema tributario fondato sul principio di legalità, è compito della legge e non dell’atto della finanza, la quale deve limitarsi appunto a verificare l’esistenza di quanto stabilito dalla legge.

Un forte richiamo al principio di legalità (articolo 23 della Costituzione) e alla necessità di un intervento correttivo del legislatore si sta rivelando sempre più indifferibile in materia di credito d’imposta per attività di ricerca e sviluppo. In tale ambito si sta giocando una partita estremamente delicata tra agenzia delle Entrate e contribuenti, in assenza di referenti normativi chiari. Non solo si applicano, ora per allora, interpretazioni, indirizzi di prassi amministrativa, riferimenti normativi certamente assenti negli anni (pensiamo all’anno d’imposta 2016, per esempio) oggetto dell’attuale attività di controllo da parte degli uffici. A ciò si aggiunge una posizione assunta dalla Corte di Cassazione volta a far coincidere il concetto di «credito non spettante» rispetto a quello di «credito inesistente» (Cassazione 29717/2020).

A ben vedere si rischia l’interpretazione abrogante delle norme e il disconoscimento di crediti in assenza di referente normativo e adeguati accertamenti peritali che coinvolgono necessariamente il Mise e rispetto ai quali l’agenzia delle Entrate è strutturalmente priva di competenza.

La situazione che si sta verificando non può non preoccupare gli operatori del diritto e ancor più gli interpreti che devono applicare le norme e orientare i comportamenti degli stessi operatori.

Il credito d’imposta in questione è stato l’articolo 3 del Dl 145/2013 (convertito, con modificazioni, dalla legge 9/2014), poi sostituito dall’articolo 1, comma 35, della legge di Stabilità 2015 (legge 190/2014). Ora, nell’attività di verifica, va premesso che l’agenzia delle Entrate non può essere il deus ex machina. Non può prescindere, salvi casi di marchiana insussistenza del credito fruito, dall’acquisizione del parere ad hoc, sul singolo caso verificato, del ministero per lo Sviluppo economico.

In mancanza, il suo accertamento non potrà essere ritenuto valido, anzitutto sotto il profilo della carenza di motivazione e dell’infondatezza degli addebiti ascritti.

In una materia tecnica e altamente complessa, naturalmente devoluta ad un ambito peritale elettivo, ogni semplificazione procedimentale si traduce in una violazione diretta delle norme sul procedimento amministrativo, sulla motivazione degli atti, quindi sul diritto di difesa del contribuente.

Se pensiamo alla responsabilità penale che può derivare da una comunicazione alla Procura di una notizia di reato infondata, a partire dalla carenza di istruttoria, non è difficile concludere per la responsabilità personale, quanto meno da illecito extracontrattuale, del funzionario dell’agenzia delle Entrate che, senza le dovute acquisizioni peritali, ha dato seguito, in sede amministrativa e penale, ad iniziative informate da certo difetto di istruttoria.

Il riferimento al cosiddetto manuale di Frascati o ancora al manuale di Oslo, sempre ora per allora, individua un ulteriore nodo problematico degli accertamenti degli uffici che non si chiedono quale sia la collocazione nella gerarchia delle fonti di simili “manuali”, la cui versione ufficiale non è neppure reperibile.

La nuova frontiera post-Covid 19 che le aziende italiane devono trovarsi ad affrontare rischia di essere il sistematico disconoscimento dei crediti fruiti che non può intervenire sulla base di mere opinioni, peritalmente non istruite, portanti ad una affermazione di «inesistenza del credito», piuttosto che – più correttamente – di sua «non spettanza».

L’errore interpretativo – questo lo può confermare anche una matricola di giurisprudenza – non può integrare un fatto costitutivo di un’attività fraudolenta (sanzionabile in base al Dlgs 74/2000). Semmai lo smentisce in radice e sin dall’origine. Non sembra neppure necessario invocare la tassatività della fattispecie di reato, stante l’evidenza istituzionale della nozione.

Nella materia del credito d’imposta da ricerca e sviluppo, poi, è a tutti nota la pletora di risoluzioni, circolari, risposte dell’Amministrazione finanziaria e del Mise che dimostrano l’incerto ancoraggio normativo delle stesse posizioni della prassi amministrativa e l’assenza di un perimetro applicativo chiaro. Elementi ulteriori che rimuovono i presupposti per un fatto sanzionabile.

Che poi l’Agenzia delle Entrate debba rivolgersi al Mise per l’analisi dei casi pratici complessi, esclude nuovamente la qualificabilità della condotta del contribuente in termini di attività fraudolenta.

Siamo in presenza di un nuovo caso in cui gli approdi recenti tradotti dalla più recente prassi dell’Agenzia e della Suprema corte richiedono l’immediato intervento del legislatore, anche attraverso la decretazione d’urgenza, atteso che i contribuenti non possono poggiare il loro destino fiscale sulla devoluzione al sindacato giudiziale di tematiche fondamentali talvolta anche per la loro stessa sopravvivenza.

Va ridotto l’ampio perimetro dell’alea interpretativa e con esso delle incertezze in sede di applicazione. Non può parlarsi di carenza in radice del presupposto costitutivo del credito d’imposta indiscriminatamente in tutte le ipotesi in cui sono contestati i fondamenti tecnici sottesi al beneficio fiscale.

Si invoca l’intervento indifferibile del legislatore perché, a norma dell’articolo 23 della Costituzione, la finanza non ha il potere di imporre alcunché. La funzione dell’articolo 23 rimane quella di tutelare la libertà e la proprietà individuale. Soprattutto in materia di ricerca e sviluppo si recupera la funzione primaria del principio di legalità: contenere la discrezionalità dell’amministrazione finanziaria.