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Dal catasto all’Irpef la paura di toccare il gettito e l’urgenza di riforme vere

I timori di aumenti del prelievo sono governabili. E non devono impedire di affrontare le iniquità

di Salvatore Padula

La revisione del catasto e, insieme ad essa, il delicato assetto della tassazione immobiliare - circa 41 miliardi di euro complessivi - hanno avuto nei giorni scorsi un ennesimo picco di attenzioni, quando si è appreso che anche di questi temi si sarebbe occupato il disegno di legge delega per la riforma fiscale che il governo presenterà a breve.

Non si tratta esattamente di una novità. Di riordino del catasto si parla dai primi anni 2000. Da ultimo, la legge 23/2014 (anche quella una delega fiscale...) – poi rimasta in questa parte inattuata – prevedeva che nuove rendite castali fossero definite sulla base dei valori medi triennali di mercato (aggiornati ogni cinque anni), il passaggio dai vani ai metri quadri e il fatto che le caratteristiche dell’immobile (tipologia, conservazione, ecc) avrebbero avuto un peso nel calcolo delle tariffe d’estimo. Il tutto garantendo la parità di gettito.

A dire il vero, non è una novità neppure il coro di dissensi che – dalla Lega al M5s – si è alzato in modo trasversale, pur con qualche sorpresa (vedi la posizione meno rigida di Forza Italia), per scongiurare qualsiasi intervento. Con motivazioni che ripropongono esattamente quelle che già in passato avevano bloccato la riforma: no alla stangata; impensabile un aumento delle tasse sugli immobili; ora non è il momento.

Vedremo che farà il governo (il documento finale dell’indagine parlamentare conoscitiva sulla riforma fiscale nulla dice su catasto e tassazione immobiliare). C’è da chiedersi, però, se per la politica arriverà mai il momento adatto per mettere mano a un sistema vecchio di quarant’anni – gli attuali valori sono stati aggiornati nel 1988 per i terreni e nel 1990 per i fabbricati, rispettivamente sui prezzi ’78-79 e ’88-89 – che determina pesanti iniquità.

Uno degli obiettivi della riforma fiscale è la «definizione di un sistema certo ed equo», come si legge nel Pnrr. Allora, un conto è sostenere che il prelievo immobiliare non debba essere aumentato, un altro è comportarsi in modo che le iniquità del sistema attuale vengano serenamente mantenute.

Certo, non si può ignorare che, da più parti, dalla Commissione europea al Fmi, arrivano solleciti decisamente più minacciosi. Una visione condivisa dalla Banca d’Italia quando sostiene (audizione dell’11 gennaio 2021, Indagine conoscitiva sulla riforma tributaria) che la «letteratura economica riconosce nella tassazione dei patrimoni immobiliari una forma di prelievo poco distorsiva». E in modo più esplicito: un «maggiore prelievo sul possesso di immobili per finanziare un minor carico sui fattori produttivi potrebbe rappresentare un’opzione di riforma favorevole alla crescita».

Tuttavia, le tasse immobiliari italiane - Irpef, Imu, imposte di registro/Iva, ipotecarie e catastali e imposte di successione - sono tutt’altro che leggere. Dopo la crisi del 2011, il solo prelievo locale è più che raddoppiato dai 9 miliardi dell’Ici ai 23 circa dell’Imu (15 ai Comuni e 8 allo Stato). E in totale il prelievo sul mattone tocca il 2,4% del Pil (come detto, 41 miliardi, con evasione stimata di 5-6), in linea con la media europea, ben più della Germania e un po’ meno di Spagna e soprattutto della Francia.

Semmai, ci si potrebbe chiedere se tutto funziona come dovrebbe. A esempio, se la doppia esenzione sull’abitazione principale (dall’Irpef e dall’Imu, escluse le case di lusso, vera anomalia nel panorama internazionale) sia giustificata in senso assoluto, o se magari non sia preferibile un sistema più flessibile, che tuteli le famiglie a reddito medio-basso.

Il tema, allora, non è tanto «l’aumento delle tasse sulla casa», già molto elevate. È invece capire come si compone il prelievo. Da dove arriva. Chi colpisce. E provare a rimediare alle possibili storture.

Utilizzare per il calcolo delle imposte sulla casa valori che non rispecchiano più la realtà crea distorsioni. In quarant’anni molti Comuni hanno cambiato volto. Lo sviluppo urbanistico ha fatto nascere nuovi quartieri e ha recuperato ex aree degradate. Il nostro catasto non coglie queste evoluzioni e quindi può – come accade – tassare di più una casa nuova in periferia rispetto a una di maggior pregio in centro o semi-centro. Sperequazioni enormi nello stesso Comune, nello stesso quartiere. Certo, ci sono poi gli immobili “abbandonati”, quelli ricevuti in eredità nei piccoli paesi e non utilizzabili, quelli che valgono zero, che sono invendibili, che non si possono affittare. C’è il tema degli immobili utilizzati dalle imprese, senza dire dei terreni agricoli.

Che cosa impedisce di mettere ordine? I timori di aumento del prelievo ci sono, ma sono governabili. È evidente che ai nuovi valori catastali non potrebbero mai e poi mai essere applicate le aliquote attuali. E che le aliquote andrebbero rideterminate e riparametrate per garantire la parità di gettito (altro psicodramma: a livello di singolo comune, regionale o statale?). Chi oggi paga meno perché favorito da una rendita molto più bassa dei valori di mercato pagherebbe di più. Ma accadrebbe anche il contrario. È sbagliato?

Fare una riforma significa rompere gli equilibri. Significa distribuire in modo diverso le risorse (che sono e saranno limitate). Una riforma che preservi lo status quo servirebbe a ben poco. Un po’ come ha detto Mario Draghi, citando Beniamino Andreatta: «Le cose vanno fatte perché si devono fare, non per avere un risultato immediato». Così è per la casa, per il catasto. E così sarà per molti altri ambiti che la riforma fiscale dovrà/potrà toccare.

Prendiamo l’attesa cancellazione dell’Irap, auspicata da tutti. Via l’imposta non i suoi incassi (circa 15 miliardi per il settore privato, pre-pandemia). Il nuovo prelievo – vedremo se sarà un’addizionale, se esisteranno clausole di salvaguardia o altro – dovrà garantire il gettito attuale (o quello che il governo vorrà trarre), ma ognuno dovrà fare i suoi calcoli e non tutti pagheranno domani esattamente quel che pagano oggi di Irap.

Oppure prendiamo la rimodulazione dell’Irpef, con il possibile cambio del mix aliquote, scaglioni, detrazioni, spese deducibili e detraibili, 80/100 euro. Guadagneranno tutti? Difficile: qualcuno dovrà rinunciare a qualche beneficio/regalo, qualcuno avrà qualcosa in più. Nulla sarà a saldo zero. Bisognerà farsene una ragione.