Controlli e liti

Giudicati inesistenti i limiti alla circolazione dei capitali

Senza armonizzazione è legittimo l’esercizio di competenze fiscali

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di Enrico Traversa

Con la sentenza del 30 aprile nella causa C-565/18 Société Générale c. Agenzia delle Entrate la Corte di giustizia Ue ha “salvato” l’imposta italiana sulle operazioni relative a strumenti finanziari derivati che hanno come titoli “sottostanti” delle azioni emesse da società con sede in Italia o titoli rappresentativi di queste medesime azioni. Questa imposta (più conosciuta come Tobin Tax italiana o «imposta sulle transazioni finanziarie», perché grava anche sulle operazioni di trasferimento della proprietà di azioni di società residenti in Italia) è stata istituita dall’articolo 1, comma 492, della legge n. 228/2012 (Legge di stabilità 2013) ed è dovuta da ciascuna delle controparti alle operazioni sui derivati in misura fissa ma crescente per fasce di valore delle negoziazioni, determinata con riferimento alla tipologia dello strumento finanziario e al valore del contratto secondo quanto prescritto nella tabella 3 allegata alla legge stessa.

La controllata italiana della Société générale aveva chiesto all’Agenzia delle entrate il rimborso dell’imposta relativa all’esercizio 2013 sostenendo che l’articolo 1, comma 492, della legge 228/2012 era contrario all’articolo 63 del Trattato Ue che vieta ogni restrizione alla libera circolazione dei capitali. Il contenzioso relativo al rimborso dell’imposta pagata dalla Société générale è arrivato fino alla Ctr Lombardia che ha posto alla Corte di giustizia Ue un’inedita questione interpretativa dell’articolo 63 Ue. La norma istitutiva dell’imposta prevede infatti la tassazione di operazioni finanziarie relative a derivati soltanto qualora il titolo sottostante sia stato emesso da una società residente in Italia, indipendentemente sia dal luogo di conclusione dell’operazione, sia dallo Stato di residenza degli operatori finanziari controparti alle operazioni e dell’eventuale intermediario.

Da notare quindi che l’imposta è dovuta non soltanto per le operazioni sui derivati effettuate in Italia, ma anche sulle identiche operazioni poste in essere in altri Stati com’era il caso delle operazioni effettuate dalla ricorrente Société Générale. L’imposta italiana sulle transazioni finanziarie in generale presenta quindi due singolari caratteristiche: un campo di applicazione ratione loci esteso a tutto il mondo (extraterritorialità) ed un campo di applicazione ratione personae limitato invece ai trasferimenti di azioni di società residenti in Italia e alle negoziazioni di derivati basati su azioni emesse da società italiane.

Nella sentenza resa nella causa C-565/18 la Corte di giustizia Ue ha stabilito che l’imposta non costituisce una restrizione alla libera circolazione dei capitali in quanto essa si applica nella stessa misura alle operazioni su derivati effettuate in Italia e alle operazioni analoghe concluse in altri Stati. Inoltre la legge italiana non prevede alcuna disparità di trattamento fra operatori finanziari residenti e operatori non residenti i quali, sempre secondo la Corte Ue, si trovano in una situazione del tutto comparabile. È d’altra parte evidente che a causa dell’imposta, l’investimento in derivati basati su azioni o altri titoli disciplinati dal diritto italiano è reso meno vantaggioso rispetto all’investimento in derivati basati su titoli esteri.

A questa critica della Société générale la Corte Ue ha ribattuto che non costituiscono restrizioni alla libertà di circolazione dei capitali le “conseguenze svantaggiose” che in mancanza di un’armonizzazione a livello europeo possono derivare all’esercizio delle competenze fiscali da parte dei vari Stati membri, purché le legislazioni tributarie nazionali non pongano in essere discriminazioni, il che si verifica per l’appunto nel caso dell’imposta italiana sui derivati. Per di più, conclude la Corte, non vi è alcuna indicazione che gli operatori non residenti siano assoggettati ad adempimenti dichiarativi diversi e più gravosi di quelli prescritti per gli operatori residenti che effettuano identiche operazioni sui derivati assoggettate all’imposta.

Sulla base della precedente giurisprudenza l’interpretazione data dalla Corte all’articolo 63 Ue nella sentenza C-565/18 era largamente prevedibile. Resta il fatto che, come giustamente rilevato dalla difesa della Société générale, l’imposta italiana sulla transazioni finanziarie penalizza – si badi bene – sui mercati finanziari di tutto il mondo, sia le negoziazioni di azioni emesse da società italiane, sia gli investimenti in derivati basati su azioni di società italiane. Rispetto alle analoghe operazioni su azioni di società estere, comprese anche quelle effettuate in Italia, siamo in presenza di un’evidente “discriminazione a rovescio” a danno, sia pure indiretto, delle società con sede in Italia. Il rimedio nei confronti di tali “discriminazioni a rovescio” non è il ricorso alla Corte di giustizia UE, dato che il Trattato UE tutela unicamente gli operatori degli altri Stati membri, ma il ricorso alla Corte costituzionale per violazione del principio di uguaglianza ex art. 3 della costituzione. Esistono infatti due precedenti nei quali la Corte costituzionale si è pronunciata contro discriminazioni a danno di soggetti italiani nei confronti di soggetti di altri Stati membri UE: le sentenze 249/1995 e 443/1997 riguardanti rispettivamente i lettori italiani di lingua straniera e i produttori italiani di pasta.

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