Diritto

Giudici tributari, tetto al reddito al vaglio della Consulta

Secondo il Consiglio di Stato il limite retributivo imposto ai giudici dipendenti della Pa genera un’ingiustificata disparità di trattamento

di Federica Micardi

Il Consiglio di Stato chiama in causa la Corte costituzionale sulla norma che pone il limite di reddito dei dipendenti pubblici a 240mila euro lordi annui perché, quando applicata ai giudici tributari (che sono lavoratori pubblici sui generis perché si tratta di attività onoraria) crea un’ingiustificata discriminazione per il giudice tributario dipendente pubblico, rispetto al collega che lavora nel privato.

La vicenda

Un presidente aggiunto del Consiglio di Stato si è visto chiedere indietro, con provvedimento del Segretariato generale della Giustizia amministrativa, 31mila euro perché nello svolgere l’attività di giudice tributario nelle annualità dal 2015 al 2018 aveva superato, il limite massimo retributivo per i lavoratori della Pa, pari a 240mila euro lordi annui, previsto dall’articolo 13, del Dl 66/2014. Contro questa richiesta viene presentato ricorso al Tar del Lazio, che viene respinto ( sentenza 18 giugno 2020, n. 6668).

Viene quindi presentato un ricorso in appello.

La nomina del ricorrente a giudice tributario era avvenuta a seguito di procedura concorsuale per titoli nel 2000 e il compenso fisso percepito era di 249 euro al mese lordi, oltre la quota variabile sulla produttività.

Da sottolineare inoltre che oltre alla somma di 31mila euro per le annualità pregresse viene prevista la decurtazione dei successivi compensi di giudice tributario anche per tutti gli anni successivi, e senza limiti di tempo.

L’ordinanza del Consiglio di Stato

Il Consiglio di stato, nell’ordinanza 3503 del 5 maggio, si sofferma sul fatto che per la medesima attività, nelle medesime condizioni c’è un’evidente disparità di trattamento tra lavoratore pubblico e privato, tanto che il giudice tributario dipendente privato o lavoratore autonomo che guadagna oltre il tetto dei 240mila euro non subisce nessun tipo di decurtazione, a differenza del collega pubblico dipendente, che nel calcolo del reddito “massimo” vede sommati il reddito da dipendente con gli emolumenti per l’attività in commissione tributaria. E non si tratta di situazioni simili, ma della medesima situazione; e questo vale per tutti i giudici tributari che sono pubblici dipendenti (e che sono toccati dal “tetto”) rispetto a tutti i giudici tributari che svolgono una seconda attività nel privato.

Altro aspetto rilevante, sottolineato dal Consiglio di Stato, è che il “taglio” viene fatto su una remunerazione variabile in relazione alla misura della quantità e al livello del lavoro effettuato; ciò determina una tendenziale, progressiva imposizione della gratuità della prestazione lavorativa effettuata in capo a chi è prossimo, o a ha già raggiunto, il “tetto” retributivo. Un fatto, sottolineano i giudici d’appello, che, oltre a contrastare con l’articolo 36 della Costituzione, contraddice quello di buon andamento dell’amministrazione ex articolo 97 della Costituzione. La decurtazione automatica, infatti, si traduce in un disincentivo rischiando di dissuadere, in prospettiva, proprio i funzionari pubblici di maggiore e migliore esperienza e competenza nel settore giurisdizionale dal chiedere di ricoprire, o dal continuare a ricoprire, il ruolo di giudice tributario.

Il Consiglio di Stato, sottolinea, inoltre, che questo “prelievo” è una mera decurtazione patrimoniale, dal carattere non temporaneo ma definitivo e permanente e rientra nei casi di imposizione tributaria anomala ed implicita, secondo l’insegnamento della giurisprudenza costituzionale.

Per il Consiglio di Stato, quindi, il giudizio va sospeso e vanno rimesse alla Corte costituzionale le questioni di legittimità del Dl 66/ 2014, articolo 13 (Limite al trattamento economico del personale pubblico e delle società partecipate) e del Dl 201/2011, articolo 23- ter (Disposizioni in materia di trattamenti economici) per contrasto con cinque articoli della Costituzione, che sono: l’ articolo 3 (principio di eguaglianza), l’articolo 23 (nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge), l’articolo 36 (diritto a una retribuzione proporzionata all’attività svolta), l’articolo 53 (dovere di pagare le tasse secondo criteri progressivi) e l’articolo 97 (buon andamento della pubblica amministrazione).

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