I temi di NT+Modulo 24

Giudizio penale e processo tributario, esiti distinti ma da motivare

La Cassazione, con la sentenza 19781/2020, fa il punto sull'intreccio tra l'attività giudiziaria di repressione di reati e quella amministrativa di accertamento degli imponibili e delle maggiori imposte dovute

di Massimo Basilavecchia

La sentenza 19781/2020 della Cassazione consente di fare il punto su alcune delle questioni più ricorrenti quando l’attività giudiziaria di repressione di reati si intreccia a quella amministrativa di accertamento degli imponibili e delle maggiori imposte dovute. Non tutte le conclusioni della sentenza sono condivisibili, ma l’impegno profuso nella stesura della motivazione e la qualità dell’analisi delle singole questioni meritano una segnalazione e una riflessione approfondita.

La questione
La controversia riguarda società e soci, e nasce dalla asserita indebita percezione di contributi pubblici, che sarebbero stati ottenuti utilizzando fatture relative ad operazioni soggettivamente inesistenti, in quanto rese da prestatori non aventi la capacità organizzativa necessaria per effettuare le prestazioni contabilizzate; il contributo veniva considerato dall’Agenzia delle Entrate frutto di attività illecita, e così tassato (per cassa, nei singoli periodi di imposta di percezione delle rate del contributo) come sopravvenienza attiva della società.

Primo profilo d’interesse, l’autonomia tra giudizio penale e processo tributario
Un primo aspetto riguarda il rapporto tra gli esiti del giudizio penale (nella specie, anche del giudizio contabile) e quello del processo tributario. La Suprema corte ribadisce l’assoluta autonomia dei due esiti, sicché un’assoluzione piena in sede penale (e, sembrerebbe, anche nel giudizio contabile) non comporta l’accoglimento del ricorso in sede tributaria. Viene così confermata la sentenza di appello nella parte in cui nega che l’accertamento tributario debba essere annullato, dato l’esito favorevole agli imputati del processo penale.
La conclusione conferma un rapporto di autonomia che, nel sistema derivante dal combinato disposto del Dlgs n. 74/2000 e del Dlgs n. 472/1997, è chiarissimo, ma che non può non lasciare perplessi, in casi nei quali la diversità di regimi probatori non sembra incidere più di tanto. L’assoluta autonomia, come è stato rilevato da tantissimi autorevoli studiosi del diritto penale e del diritto tributario, stride con un elementare senso di giustizia, quando il diverso esito non è legato alla diversa misurazione della base imponibile o alla quantificazione dell’imposta evasa, ma riguarda fatti che, nella loro oggettività, è difficile possano essere diversamente definiti in giudicati contrastanti.
Caso tipico la fatturazione inesistente: che un contribuente possa comprendere l’alchimia per la quale la fatturazione possa essere considerata valida in sede penale e falsa in sede tributaria è veramente arduo immaginare. Ma non si può volgere la critica alla sentenza della Cassazione da cui queste note traggono spunto: il sistema è indubbiamente impostato proprio accettando l’evenienza di giudicati contraddittori. Si può però constatare non si rinviene, nella giurisprudenza tributaria (delle Commissioni e soprattutto della Suprema Corte) uno sforzo di interpretazione adeguatrice, che tenda a selezionare casi nei quali la diversità degli esiti è accettabile da casi invece in cui è assai difficile giustificarla; ricordando un insegnamento non recente della Corte costituzionale, purtroppo trascurato anche dal legislatore, secondo il quale «il potere attribuito all’amministrazione finanziaria di verificare l’eventuale rilevanza fiscale del fatto penalmente accertato, ai fini dei conseguenti provvedimenti, va esercitato in conformità al principio, desumibile dall’articolo 4 della legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. E, secondo cui la pubblica amministrazione ha l’obbligo di conformarsi al giudicato dei tribunali» (da ultimo, sentenza n. 264/1997).
Peraltro, per chiudere su questo primo punto è interessante notare che la sentenza richiede al giudice di merito di compiere una accurata analisi e di esplicitare in modo preciso le ragioni per le quali l’esito del giudizio tributario si mostra diverso rispetto a quanto statuito in sede penale e contabile.

Secondo profilo, la rilevanza fiscale di illeciti di diversa natura
Il secondo profilo di interesse si sposta sul piano sostanziale e investe l’interpretazione dell’articolo 14, comma 4, della legge n. 537 del 1993, che stabilisce la tassabilità dei fatti che danno luogo a illecito civile, penale, amministrativo. Questa rilevanza fiscale di illeciti di diversa natura comporta, come prima conseguenza, che l’individuazione di un provento tassabile, derivante dall’attività illecita, non presuppone l’accertamento di un vero e proprio profitto del reato, in senso penalistico: occorre però che l’attività illecita sia produttiva di un arricchimento patrimoniale tale da poter configurare un possesso di reddito.
Ma soprattutto si legge nella sentenza, finalmente, una precisazione assolutamente fondamentale: non solo l’illecito deve produrre reddito, ma deve trattarsi di un reddito ascrivibile ad una delle categorie di cui all’articolo 6 del testo unico sulle imposte sui redditi; l’articolo 14 non aggiunge nuove fattispecie tassabili ma esclude che il carattere illecito delle attività catalogate nell’articolo 6 ne possa consentire la detassazione (la quale è invece giustificata, se il reddito è sottoposto a sequestro o confisca). Questa previsione, chiarissima nell’impianto originario della norma, è stata offuscata, creando equivoci sicuramente contrari a Costituzione, dalla successiva precisazione che, nell’impossibilità di individuare la categoria di riferimento, il provento da illecito debba essere considerato tassabile come reddito diverso, per presunzione legale.
Corollario è che un’attività d’impresa, anche se comprende fatti e atti illeciti, resta tassabile come tale, secondo le regole proprie della categoria e non secondo parametri parasanzionatori. E dunque la Corte di cassazione critica e annulla la sentenza d’appello che aveva avallato la tassazione del contributo per cassa – così come accertato dall’ufficio – motivando sulla base della natura illecita del contributo. Il criterio di tassazione del provento illecito, se si tratta di componente del reddito d’impresa, non può che restare quello ordinariamente applicabile: e poiché si trattava nella specie di contributi tassabili come ricavi per competenza, tali dovevano restare, anche una volta accertato che si trattava di contributi indebitamente percepiti.
Determinare l’imponibile è attività che non consente di introdurre metodi ispirati da finalità sanzionatorie, se non previste esplicitamente dalla legge.

Terzo aspetto, l’indeducibilità dei costi
Terzo aspetto di interesse: in un caso del genere, è errato considerare indeducibili i costi, essendo stato anche chiarito dallo jus superveniens (Dl n. 16/2012, articolo 8) che l’inesistenza soggettiva delle fatture di acquisto non può comportare l’indeducibilità di costi sostenuti per prestazioni oggettivamente sussistenti, ovviamente nella compresenza dei requisiti generali di cui all’art. 109 Tuir (inerenza, certezza e oggettiva determinabilità).
Maggiore rigore viene invece applicato in materia di Iva: la detrazione può essere disconosciuta – come viene confermato conclusivamente nel caso deciso dalla Cassazione – se l’Amministrazione, anche in via presuntiva, può dimostrare la consapevolezza (o anche soltanto la ragionevole conoscibilità con media diligenza) dell’impossibilità del prestatore di rendere le operazioni fatturate; a questo proposito, un rigore maggiore sembra richiesto all’Amministrazione dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, che più volte ha ribadito che non spetta al contribuente compiere indagini e verifiche sulla organizzazione della controparte contrattuale.

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