Imposte

Il paradosso Iva del Fisco: transazione come servizio

L’Agenzia legge la norma fuori dal contesto della prestazione. Circolare Assonime critica la qualificadi operazione tassabile

di Luca Lavazza e Raffaele Rizzardi

È prassi diffusa comporre controversie mediante accordi transattivi nell’ambito dei quali le parti si fanno concessioni reciproche e, contestualmente, rinunciano alle proprie pretese o ad agire in giudizio nei confronti della controparte. Il trattamento Iva delle somme risultanti dalla transazione è da sempre argomento controverso; in particolare, per via di recenti risposte dell’agenzia delle Entrate (386/20, 145/21, 179/21, 212/21), l’argomento ha trovato nuovo interesse tra i commentatori tra cui, da ultimo, Assonime, circolare 26/21.

Tratto comune delle risposte dell’Agenzia che non si riscontra nelle risposte precedenti (tra le altre la risposta 178/19), è un’attitudine a considerare gli importi transati come corrispettivi per prestazioni di servizi con conseguente imponibilità ai fini Iva.

La rinuncia alle liti o all’esercizio di ogni ulteriore pretesa è stata ritenuta rientrare nella categoria delle «obbligazioni di fare, di non fare e di permettere, quale ne sia la fonte» che, secondo l’articolo 3 del Dpr 633/72, rappresenta la fattispecie residuale nella norma definitoria delle prestazioni di servizi che rilevano ai fini Iva.

Certo, l’inquadramento si potrebbe basare sul testo della legge interpretato in maniera letterale ma una lettura più orientata alla ratio dell’Iva, anche in ottica unionale, conduce a nutrire più di un dubbio sulla soluzione.

Il condizionamento unionale

Innanzitutto, la perplessità nasce dalla qualificazione che si lega solamente alla parola «obbligazione» avulsa dalla premessa che deve trattarsi di «prestazioni di servizi dipendenti da…». In chiave unionale, inoltre, si deve cercare un atto di consumo associato all’«obbligazione»: in questa chiave, in assenza di consumo anche prospettico, non sono stati giudicati soggetti a Iva gli impegni ad abbandonare la produzione lattiera e quelli di astenersi dal raccogliere almeno il 20% delle patate coltivate da un agricoltore (sentenza Corte di giustizia dell’Unione europea, C-215/94 e C-384/95).

Non aiuta nella ricerca di certezza la Cassazione che ha sposato in alcuni casi la non rilevanza ai fini Iva in ossequio alle citate posizioni unionali (Cassazione 18764/2014) e, in altri (Cassazione 23668/2018), la rilevanza ai fini Iva delle reciproche rinunce.

La recente circolare Assonime offre infine due spunti critici interessanti:

1 la rinuncia alle pretese reciproca è solo un mero consequenziale effetto dell’accordo transattivo;

2 a fronte di pattuizioni reciproche (ad esempio, obbligo a non intentare azioni legali) sarebbe, paradossalmente, necessario porre in essere una reciproca permuta di servizi con una doppia fatturazione, da parte del percipiente della somma ma anche da parte di colui che la eroga, senza poter correttamente individuarne l’imponibile, che corrisponde al valore normale e che dovrebbe basarsi sugli inesistenti e comunque non significativi costi sostenuti per l’esecuzione dei servizi.

Un motivo in più per ribadire che non esiste una regola Iva per qualunque accordo transattivo e che occorre valutarne l’oggetto, ferma restando l’irrilevanza per qualunque pagamento che possa essere qualificato in termini di risarcimento di un danno conseguente all’inadempimento delle originarie condizioni contrattuali, che non ha in alcun modo la natura di una prestazione di servizi.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©