Il Parlamento europeo detta la linea sulla web tax
Sono maturi i tempi per riprendere il dibattito sulla web tax in senso proprio, a completamento di quella “transitoria” introdotta con la conversione in legge del Dl 50/2017, che rappresenta solo una sorta di cooperazione rafforzata con il Fisco per le società estere del settore che operano in Italia tramite stabile organizzazione con oltre 50 milioni di fatturato.
Si è tornati infatti a discutere a livello internazionale di come tassare a regime i giganti del web, dopo gli accertamenti milionari in Francia e in Italia, e soprattutto in attesa che l'Ocse completi le raccomandazioni di riferimento per il settore, l'Action 1 sulla digital economy, cosa che non avverrà prima del 2020, anche se un primo report dovrebbe essere disponibile nel 2018.
Intanto sembra avere sempre maggior credito per la sua apparente semplicità, che al contempo ne costituisce anche il maggior limite oggettivo, l'approccio del “Formulary apportionment” non solo in tema di transfer pricing ma anche a livello europeo per la Ccctb (Common Consolidated Corporate Tax Base). Un sistema che attraverso l'utilizzo di una formula basata su alcuni parametri di riferimento (come forza lavoro, assets e vendite) allocherebbe il reddito tassabile relativo alle transazioni tra i Paesi interessati, superando, o meglio, semplificando le complessità delle valutazioni sui prezzi di trasferimento. Formula peraltro già in uso in alcuni Stati federali come Usa, Canada e Svizzera.
Tenendo conto del fatto che il Digital single market è parte integrante della strategia europea in ambito digitale da attuarsi entro il 2020, particolarmente degno di nota in tale direzione è il Draft report pubblicato il 13 luglio dal Parlamento europeo sulla proposta di direttiva del Consiglio europeo in tema di Ccctb.
Nell'ambito di tale rapporto si propongono modifiche alla versione 2016 della Ccctb per includere riferimenti specifici alla digital economy e alle sfide che questa pone all'interno della Ue in tema di concorrenza sleale, elusione ed evasione fiscale. L'obiettivo è fare in modo che all'interno della Ue il business generato in un Paese senza che vi sia una presenza fisica in loco possa essere trattato, applicando la Ccctb anche alle attività digitali (per le quali i tradizionali parametri “materiali” come forza lavoro, assets e vendite sarebbero inidonei a fornire indici di capacità contributiva), esattamente come quello generato da un soggetto avente una presenza stabile in quel medesimo Paese.
A tal fine il rapporto puntualizza che la formula apportionment di allocazione del reddito tassabile fra i Paesi membri deve basarsi su quattro fattori fra loro ponderati: il costo del lavoro, gli assets (includendo, diversamente dalla versione 2016, non solo quelli materiali ma anche quelli immateriali), le vendite e, new entry dedicata alla digital economy, la raccolta ed uso a fini commerciali dei dati personali ricavati da piattaforme online e utilizzatori dei servizi digitali, insieme considerati quali Data.
A sottolineare che i nuovi drivers per la tassazione delle attività digitali ampliano di fatto la platea delle società alle quali la Ccctb si applica, il rapporto evidenzia che la direttiva dovrà applicarsi anche alle società residenti in un Paese terzo in relazione alle attività digitali che sono specificatamente dirette a consumatori (individui o società) nell'Unione o che principalmente ricavano i loro redditi da attività digitali in quel Paese; a tal fine peraltro viene inclusa una rivisitazione del concetto di residenza (ancora da affinare e declinare) per cui una società che raccoglie e sfrutta a fini commerciali i dati di cui sopra diventa residente e di conseguenza tassabile nel Paese da dove si ricavano i personal data misurabili tramite la registrazione degli utenti, i log-in, i contratti digitali sottoscritti ed il volume dei dati raccolti.
In tale documento si è quindi fatto uno sforzo estremamente interessante per definire, affianco alle modalità standard per individuare la “taxable presence” (fatturato, persone, assets) anche la valorizzazione dei “data factors” per aggredire la base imponibile prodotta nell'ambito del digitale nei Paesi dove si usufruisce dei servizi digitali altrimenti sfuggente alle regole tradizionali della tassazione del reddito; questo approccio, certamente innovativo, potrebbe peraltro contribuire all’idonea qualificazione e individuazione di eventuali stabili organizzazioni.
Sforzo che potrebbe essere base di discussione in vista anche del prossimo Ecofin a Tallin ( 15-16 settembre) prima di arrivare a definire non auspicabili soluzioni locali come la “cedolare secca”, la Dpt ( Diverted Profit Tax) inglese o la click tax in quanto potenzialmente confliggenti con le normative di altri Paesi e che potrebbero determinare non solo un incremento della doppia imposizione e di conseguenza delle dispute fiscali a livello internazionale ed europeo, ma anche impatti economici su un mercato, quello digitale, in crescita e sempre più integrato a livello globale.
Sul tema web tax, un approccio sistematico e coordinato a livello internazionale ci pare ancora oggi la prospettiva più adeguata e il contributo fornito per la misurazione dei data factors nel draft report del 13 Luglio sembra tracciare un percorso definito.