Il CommentoControlli e liti

Indagini finanziarie, sui prelievi ora si esprima la Consulta

ADOBESTOCK

di Giorgio Gavelli

T orna alla Consulta l’articolo 32 del Dpr 600/1973, secondo cui dati ed elementi acquisiti (tra l’altro) attraverso indagini bancarie «sono posti a base» delle rettifiche e degli accertamenti «se il contribuente non dimostra che ne ha tenuto conto per la determinazione del reddito soggetto a imposta o che non hanno rilevanza allo stesso fine». Il meccanismo scatta anche per i prelevamenti, i quali possono giungere a configurare ricavi (ma non compensi) «se il contribuente non ne indica il soggetto beneficiario e sempreché non risultino dalle scritture contabili».

L’esclusione dei compensi professionali si deve alla sentenza n. 228/2014 della Consulta, che ha definito «arbitrario» ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati a un investimento nell’ambito dell’attività professionale e che questo, a sua volta, produca un reddito. La Ctp di Arezzo (ordinanza del 26 aprile scorso, pubblicata sulla Gazzetta ufficiale, Serie speciale, del 13 ottobre) prende atto che la giurisprudenza del tutto prevalente della Cassazione ha qualificato questa norma come «presunzione legale relativa», addossando al contribuente un onere probatorio molto severo. Egli, infatti, è tenuto a dimostrare analiticamente l’estraneità di ciascuna operazione rilevata dall’ufficio (Cassazione 1040/2018), il quale, invece, non avrebbe alcun obbligo di procedere in contraddittorio prima di emettere l’accertamento. Inoltre, non sarebbe ammessa alcuna deduzione a titolo di oneri presuntivi (Cassazione 11102/2017), aggravando la paventata violazione del principio di capacità contributiva (Corte costituzionale 225/2005). Secondo i giudici aretini, la questione va rimessa al giudizio della Consulta perché alcuni profili della decisione assunta verso i professionisti potrebbero estendersi anche al caso trattato (imprenditore individuale in contabilità semplificata): i prelevamenti non giustificati potrebbero, infatti, derivare da costi aziendali sostenuti in modo non tracciato o da spese personali di cui non si ha l’obbligo di mantenere la documentazione di spesa. Così che il reddito effettivo da tassare potrebbe essere, nel primo caso, la differenza tra versamenti e prelievi non giustificati, nel secondo caso i soli versamenti e non la somma tra i due importi come invece operato dagli uffici «con conseguenze vessatorie per il contribuente» e «contrariamente ad ogni logica contabile e aritmetica». Peraltro, ai soli fini delle imposte sui redditi, in quanto ai fini Iva solo i versamenti vengono assoggettati a imposizione.

L’ordinanza di rimessione non cita l’articolo 7-quater del Dl 193/2016, con cui si è previsto che la “presunzione” scatti solo nel caso in cui i prelievi siano superiori a 1.000 euro giornalieri e, comunque, a 5mila euro mensili. Già la circolare 32/E/2006 aveva richiesto agli uffici di agire con ragionevolezza, potendosi trattare spesso di somme da ricondursi alla gestione familiare del soggetto accertato. Affermazione cui si affiancano i profili di illegittimità rilevati da dottrina e giurisprudenza (tra le altre Ctr Veneto 18/13/2016, Ctp Treviso 362/05/2014 e Ctp Salerno 4987/15/2015).