Inerenza dei costi, braccio di ferro sulla prova
La Cassazione continua ad affermare che l’onere grava sul contribuente ma in realtà l’inerenza non avrebbe bisogno di prove
La Cassazione continua a stabilire che per dedurre un componente negativo relativo al reddito d’impresa l’imprenditore deve fornire la prova dell’inerenza della spesa o del costo. Quasi settimanalmente vengono depositate pronunce dello stesso tenore. Ma tutto ciò risulta terribilmente errato.
Non vi possono essere dubbi, intanto, come principio, che nel rapporto tributario valgano le regole dell’articolo 2697 del codice civile («chi vuol fare valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento»). Questo significa che è l’Agenzia che risulta tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa. In pratica, affermando, con l’emanazione dell’atto di accertamento, l’esistenza dell’obbligazione tributaria, l’Amministrazione assume la posizione di creditore nei confronti del contribuente, con la conseguenza che riveste in sede giudiziale il ruolo di attore in senso sostanziale, sul quale grava l’onere di provare la fondatezza della propria pretesa. Questa è la regola: chiaramente se il contribuente presenta un’istanza di rimborso, è su di lui, sempre in ragione della predetta regola, che incombe l’onere probatorio.
Il fatto che la giurisprudenza della Cassazione continui ad affermare, invece, che l’onere della prova per la deduzione di un componente negativo di reddito (nella determinazione di quello d’impresa) gravi sul contribuente, costituisce una sorta di manipolazione giurisprudenziale. La Cassazione, in particolare, non considera la “configurazione unitaria” della determinazione del reddito d’impresa: non è che quest’ultimo è dato soltanto dai ricavi e la deduzione di un componente negativo di reddito risulta una gentile concessione del legislatore, e quindi assimilabile ad un diritto (nell’ottica dell’articolo 2697 del Codice civile) attribuito al contribuente. La deduzione di un costo rappresenta invece un passaggio necessario ai fini della rappresentazione unitaria del risultato attribuibile alla specifica fonte produttiva (quella dell’attività d’impresa). Sicché la visione (chiaramente) unitaria attribuibile all’attività d’impresa, data dalla rilevanza sia di componenti positivi che di quelli negativi redditualmente, impedisce di configurare la deduzione di un costo come una sorta di diritto slegato, peraltro, dalla fonte produttiva.
Il contribuente, quindi, non deve dare alcuna prova dell’inerenza di un costo, se non dopo che l’Amministrazione abbia provato la fondatezza della propria pretesa.
Peraltro, andrebbe precisato che l’inerenza, in realtà, non abbisognerebbe di prova. L’onere della prova trova applicazione, infatti, per i fatti (articolo 2697 del Codice civile) quando quelli oggetto della decisione risultano incerti. Per l’inerenza non sono quasi mai i fatti che vengono posti in discussione, cioè se quella spesa, ad esempio, è stata effettivamente sostenuta (non si sta parlando, in questa sede, di utilizzo di fatture false). Per l’inerenza quello che rileva è se la spesa o il costo ha un collegamento o meno con l’attività esercitata. Tutto ciò però non è riconducibile ad un fatto, che può essere oggetto di prova, ma a una valutazione del fatto o dei fatti. In sostanza, si tratta di valutare se il componente economico - la spesa o il costo - ha un collegamento funzionale con l’attività imprenditoriale.
Quindi, per l’inerenza risulta improprio attribuire alle parti degli oneri di prova. Le parti invece hanno, più propriamente, un onere di allegazione dei fatti posti a fondamento delle proprie tesi. L’ufficio dell’Amministrazione finanziaria deve quindi allegare, nell’atto di accertamento, i fatti e le ragioni per le quali ritiene che determinati componenti economici non hanno alcun collegamento con l’attività, mentre il contribuente, da parte sua, dovrà allegare i fatti e le ragioni per le quali ritiene che gli stessi componenti hanno un legame con l’attività.
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