Controlli e liti

L’errore del giudice di merito sul tipo di accertamento non è violazione di legge

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di Roberto Bianchi

Nell’ambito dell’accertamento ai fini delle imposte dirette, la distinzione tra accertamento condotto utilizzando il metodo analitico extracontabile e quello guidato dal metodo induttivo è individuabile nella parziale o assoluta inattendibilità delle informazioni scaturenti dalle scritture contabili. Nella prima ipotesi l’«incompletezza, falsità o inesattezza» dei dati rappresentati non è tale da consentire di prescindere dalle scritture contabili, essendo l’agenzia delle Entrate legittimata esclusivamente a colmare le manchevolezze appurate, usufruendo, nell’intento di dimostrare la sussistenza di componenti positivi di reddito non dichiarati, anche di presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti mentre nella seconda, al contrario, le omissioni o le false attestazioni risultano tali da inficiare l’attendibilità e pertanto l’utilizzabilità, nell’ambito dell’azione accertativa, anche degli ulteriori elementi contabili formalmente conformi, con la conseguenza che l’Ufficio ha la facoltà di prescindere in tutto o in parte dalle risultanze di bilancio e delle scritture contabili (qualora esistenti) ed è legittimato a quantificare l’imponibile in base a elementi meramente indiziari, anche se non idonei ad assurgere a prova presuntiva ex articoli 2727 e 2729 del Codice civile. Pertanto l’eventuale errore qualificatorio del giudice di merito sulla tipologia di accertamento, non rileva ex se come violazione di legge, ma refluisce in un errore sull’attività processuale ex articolo 360 comma 1 n. 4 del Codice di procedura civile o in un errore sulla selezione e valutazione del materiale probatorio, ex articolo 360 comma 1, n. 5, del Codice di procedura civile. A tale conclusione è giunta l’ordinanza 25022/2018 della Cassazione ( clicca qui per consultarla ).

In considerazione del minor rigore con il quale l’ufficio può procedere alla ricostruzione del reddito attraverso l’accertamento induttivo, sono previste, a tutela del contribuente, tassative condizioni per l’applicazione di tale metodologia accertativa.

Osservando le difformità tra accertamento analitico-induttivo (articolo 39 comma 1 lettera d del Dpr 600/1973) e accertamento induttivo puro, si può notare che l’accertamento analitico-induttivo non richiede specifiche condizioni per la sua applicazione e può pertanto essere un valido strumento anche nel caso in cui la contabilità risulti regolarmente tenuta (Cassazione, sentenza 2217/2006).

Però l’accertamento analitico-induttivo, a differenza dell’induttivo puro che può fondarsi anche su presunzioni semplici, richiede che le presunzioni siano corroborate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Tuttavia, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza, in caso di accertamento induttivo puro l’Amministrazione finanziaria è chiamata a tenere in considerazione anche le componenti negative di reddito, riconoscendo una percentuale di deduzione forfettaria (Cassazione, sentenza 4314/2015) mentre nel caso di accertamento analitico-induttivo, il contribuente è chiamato a dimostrare, con onere probatorio a suo carico, l’esistenza dei presupposti per la deducibilità di costi afferenti ai maggiori ricavi o compensi.

Confondere l’accertamento analitico-induttivo con l’accertamento induttivo puro, oppure trasformare un accertamento per il quale sussistono i presupposti per un induttivo in un accertamento analitico-induttivo (tendenza che, negli ultimi anni si sta sempre più diffondendo), ha pertanto effetti di non poco conto in merito all’onere della prova che grava sulle parti.

Cassazione, ordinanza 25022/2018

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