Professione

La categoria dice no all’equiparazione sulla crisi di impresa

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di Giuseppe Latour

La polemica va avanti. Le parole di giovedì del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede in risposta a un’interrogazione parlamentare in Senato non hanno avuto effetto sedativo. Anzi, hanno fatto esplodere una consapevolezza nella categoria dei commercialisti: l’estensione, con il nuovo Codice della crisi di impresa, delle funzioni di curatore, commissario giudiziale e liquidatore ai consulenti del lavoro genera una lunga serie di dubbi.

Tanto che, nelle ultime ore, tutte le sigle della categoria si sono espresse sul tema. I termini della questione vengono, così, riassunti dall’associazione italiana dei dottori commercialisti (Aidc): «C’è una doppia confusione. La prima è che le professioni di consulente del lavoro e di dottore commercialista siano intercambiabili. La seconda è che le competenze acquisite grazie al superamento di un esame di Stato possano essere sostituite da un percorso formativo di 18 mesi». In altre parole, dice Maria Pia Nucera dell’associazione dei dottori commercialisti (Adc), «c’è poca considerazione del nostro percorso formativo, del praticantato, degli esami di Stato. Noi abbiamo delle competenze perché il diritto fallimentare ha un ruolo durante tutto il nostro percorso. Gli esperti non si formano nel giro di 18 mesi».

Daniele Virgillito, presidente dell’Unione nazionale dei giovani commercialisti (Ungdcec), sulla stessa linea, osserva che nella crisi di impresa non tutto si limita alla conservazione della forza lavoro, perché «per la ristrutturazione dell’impresa nel suo complesso è necessaria una figura professionale, come quella del dottore commercialista, di più ampie competenze». Da parte di Marco Cuchel, presidente dell’associazione nazionale commercialisti (Anc), c’è poi la preoccupazione che «si stia allargando una breccia che ci porterà a perdere altre competenze. Quello della crisi d’impresa è un passaggio, ma temo che ne seguiranno anche altri se non riusciremo a far capire qual è l’interesse reale della collettività».

A tutte queste osservazioni risponde Rosario De Luca, presidente della Fondazione studi dei consulenti del lavoro: «Tutti i soggetti individuati dalla norma dovranno superare un corso da 200 ore, anche avvocati e commercialisti. Tutti tranne i pochissimi che sono stati nominati in quattro curatele negli ultimi quattro anni. È, allora, veramente difficile riuscire a comprendere il motivo della polemica». Il punto sul quale concentrarsi, per De Luca, è un altro: «Mi soffermerei, piuttosto, sulla penalizzazione della stragrande maggioranza dei professionisti, in primis i giovani».

Per il consigliere nazionale dei commercialisti, Andrea Foschi, però, «questo approccio confonde i termini del problema. Per noi il tema centrale è che le competenze non si acquisiscono facendo delle ore di formazione, ma facendo un esame di Stato. Con un semplice corso non posso compensare il fatto di non avere un percorso nel quale sia ricompreso, ad esempio, il diritto fallimentare». Cosa diversa è l’aggiornamento professionale: «Chi ha competenze deve mantenerle - dice ancora Foschi - attraverso la formazione continua. Anche i revisori degli enti locali, per fare un esempio, devono fare la loro formazione».

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