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La tassa minima globale chiesta dagli Usa rende superflua la web tax

La mossa degli Stati Uniti è uno strumento importante per chiudere la porta dei paradisi fiscali

di Alessandro Galimberti

La proposta del Segretario al Tesoro statunitense, Janet Yellen, sulla Corporate America - la tassa minima globale sui redditi delle società commerciali - è del tutto coerente con gli sforzi che da cinque anni muovono l’Ocse e, più recentemente, il G20 verso appunto una global minimum tax. Così tanto “global”, la tax, da sciogliere e accogliere in sè non solo le aliquote di mezzo mondo, ma anche la tanto discussa e combattuta, sulle sponde atlantiche ma non solo, digital tax.

La cooperazione internazionale, raffreddata, per usare un eufemismo, durante la presidenza Trump (autore peraltro di riforme fiscali dirompenti, ma del tutto e unicamente “Usa-riferite”) potrebbe infatti diventare il veicolo per condurre i Paesi ad economia sviluppata verso la grande riforma fiscale internazionale da tempo immaginata di là dell’Atlantico. Che il diritto tributario sulle imposte delle imprese sia un po’ datato ormai lo riconoscono tutti: pensato per un’economia del primo Novecento in cui suolo, cemento, macchinari e forza lavoro (la fabbrica classica) rappresentavano ricchezza, e soprattutto capacità di reddito, da quel reticolato fiscale saldamente agganciato al suolo patrio sono da tempo un po’ tutti in fuga. Attenzione: non solo le big-tech digitali che, volendo, sono state solo le ultime in ordine di tempo ad approfittare di maglie ormai larghissime e impossibili da ricucire, soprattutto durante i decenni (troppi) di coltura di paradisi (fiscali, appunto). Prima, molto prima, era iniziata la delocalizzazione delle multinazionali, e con essa le pratiche di manipolazione (legittima) dei numeri, tra transfer pricing (cioè caricamento dei costi nei Paesi a più alto carico fiscale per abbattere l’imponibile), triangolazioni tra amministrazioni statali non dialoganti tra loro etc, generando gigantesche elusioni e simmetrici paradisi.

Negli ultimi anni le crisi dei debiti sovrani, infine la pandemia Covid-19, hanno spinto molti Stati - capofila l’India, sette anni fa - a dirigere sforzi e attenzioni di gettito verso la punta dell’iceberg delle multinazionali digitali, di fatto “auto-esentate” dall’obbligo fiscale per abilità di slalom ma soprattutto per mancanza di norme applicabili. Da tempo ormai la partita si è radicalizzata con i vari Paesi Ue (ma non solo) dove sono state avviate digital tax “autarchiche”.

La posizione degli Usa, però, sul punto non si è mai modificata: riforma del fisco internazionale sì, nuova tassa digitale no, soprattutto se le imposte digitali “statali” colpiscono il fatturato e non il reddito (come in Francia e Italia, ma non solo), ignorano più di tremila trattati internazionali/bilaterali (scrisse a gennaio il Us Trade Representative) e in definitiva alterano arbitrariamente la competizione internazionale. Ad oggi il braccio di ferro tra Usa e il resto del mondo è in stand-by, in attesa appunto di trovare nuovi e soddisfacenti equilibri sulla tassazione internazionale: Francia, Italia, India e un’altra mezza dozzina di Paesi restano sotto investigazione Section 301 - che prevede tra l’altro sanzioni commerciali pesantissime - mentre avanza la Cit, Corporate income tax globale. Come funzionerà è presto per dirlo, visto che il redde rationem è previsto non prima di luglio - ma qualcosa all’orizzonte già si scorge, Se l’obiettivo Usa, non contraddetto da alcuno in sede Ocse, è vietare le pratiche elusive cioè il no-taxation dei bei giorni, basterà fissare una soglia minima di corporate tax condivisa e che le società avranno l’obbligo prima di versare nella amministrazione fiscale scelta (tra quelle dove sono presenti nel mondo) e l’onere poi di giustificarsi con le altre. Tradotto: le big tech Usa (ma il discorso vale per qualsiasi altra multinazionale di qualsiasi paese) a parità di “mimimum” pagheranno preferibilmente la Corporate income tax in patria piuttosto che altrove, chiudendo sostanzialmente così la loro partita fiscale e, di fatto, anche la porta dei paradisi. La tassa per i servizi digitali? In questo schema non è prevista, almeno per come la intendono gli altri fuori dalle sponde Usa.