Rinuncia del socio amministratore, società senza plusvalenza
Avvicinandosi la chiusura del periodo d'imposta, un tema delicato da gestire è l'eventuale rinuncia da parte degli amministratori (soci o non soci) delle somme dovute per trattamento di fine mandato (Tfm). Si tratta di una scelta in certi casi necessaria per dotare la società di nuovo patrimonio che permetta di coprire perdite in corso di formazione evitando così le costose procedure di ricapitalizzazione. Sulle conseguenze fiscali della rinuncia è intervenuta l'agenzia delle Entrate con la risoluzione 124 del 13 ottobre 2017, da cui si possono trarre utili spunti ed approfondimenti.
La fiscalità per l'amministratore
La tesi dell'Agenzia è che vada distinta la posizione dell'amministratore socio da quella dell'amministratore non socio. Per l'amministratore socio che rinuncia emergerebbe un reddito da “incasso giuridico” pari all'entità della somma accantonata dalla società che non verrà erogata, come, del resto, aveva sostenuto la circolare 73/1994 e come più recentemente ha affermato la Corte di cassazione con due pronunce (26842 del 2014 e 1335 del 2016), nella quali viene data enfasi al fatto che con la rinuncia il socio amministratore ottiene comunque un arricchimento patrimoniale costituito dall'incremento del costo della partecipazione nella propria società.
Tale tesi è tutt'altro che definitiva essendo stata puntualmente confutata in due documenti emanati dalla Fondazione nazionale commercialisti (15 gennaio 2016 e 30 giugno 2016) , nei quali emerge come il supposto arricchimento fruito dal rinunziante non possa avere valenza fiscale atteso che il reddito da lavoro autonomo non può prescindere dalla effettiva percezione della somma, fattispecie che non avviene nell’ipotesi in questione. Ovviamente lo scenario cambia se l'amministratore rinunziante non è socio poiché in tale situazione viene meno anche quel “ discutibile” arricchimento che si genera in capo a chi, socio, detiene una partecipazione nella società che beneficia dell'incremento patrimoniale derivante dalla rinunzia. Pertanto nessuna conseguenza fiscale da “ incasso giuridico” per l'amministratore non socio.
La fiscalità in capo alla società
Dal punto di vista della società la sopravvenienza attiva rappresentata dal venir meno del debito verso l'amministratore assume diversa disciplina fiscale a seconda che il rinunciante sia socio o meno. Nel caso in cui l'amministratore sia socio non si genera mai una sopravvenienza attiva fiscalmente rilevante poiché , in primo luogo, la rinuncia eseguita dal socio è considerata apporto di capitale a favore della società ed in secondo luogo la speciale previsione di cui all'articolo 88 comma 4 bis del Tuir (che rende tassabile in capo alla società l'eventuale differenza tra valore del credito e valore del debito) non si verifica mai, essendo sempre equivalente il valore di credito e debito. La risoluzione arriva a sostenere che il socio amministratore possa anche evitare di fornire alla società la dichiarazione sostitutiva di notorietà per certificare l'entità del credito, dato che in questo caso esso non può che essere di valore uguale al debito iscritto dalla società. Tuttavia va rammentato che se la società concorda con la tesi dell’Agenzia sull'incasso giuridico non potrà evitare di operare la ritenuta d'acconto sull'importo del credito rinunziato.
Diverso lo scenario se l'amministratore non è socio poiché in questa fattispecie la rinuncia al credito non può essere considerata apporto, bensì si realizza una sopravvenienza attiva tassabile a fronte del fatto che l'amministratore non debba sottoporre alcuna somma a tassazione, il che rende non necessario operare alcuna ritenuta d'acconto da parte della società. Facendo un passo indietro negli esercizi in cui è stata dedotta la quota di Tfm, la risoluzione conferma la tesi secondo cui essa è legittima solo se il diritto alla percezione del Tfm deriva da atto con data certa antecedente il mandato amministrativo.