Per i contenuti fatica e costi di produzione
Il ventennale dibattito sulla tutela del diritto di copia nel web gioca dall'inizio su un gigantesco equivoco, non si sa quanto deliberato: l'idea cioè che la libera circolazione dei contenuti in rete, davvero la più grande conquista dell'era hi-tech, non possa prevedere né tollerare alcun limite, prima ancora che regola.
Al mantra della disintermedizione, che è la vera cifra - apparente - del web, si è di fatto accompagnata la convinzione che nel magico mondo digitale tutto deve essere nella disponibilità di tutti senza pagare pegno né dazio, al massimo un credit (citazione) e siamo pari. Perché questa sarebbe (apparentemente) la logica del nuovo mondo online, libertà e democrazia orizzontale.
Ogni tentativo di correggere tale approccio iperliberista - o forse semplicemente refrattario a ogni riconoscimento di diritti altrui - viene immediatamente tacciato di volontà censoria e di ritorno al passato di caste e privilegi, si parli di web tax, di copyright o anche di pura e semplice responsabilità per fatti illeciti (haters, diffamatori seriali, produttori di fake news etc).
La realtà però è molto diversa da come appare e da come viene raccontata. Il nuovo modo di distribuire contenuti, siano artistici, letterari o editoriali, non ha cambiato il modello economico di produzione degli stessi, dietro i quali ci sono organizzazioni di imprese e prima ancora c’è il valore della creazione artistica o intellettuale.
La differenza rispetto al passato sta nel fatto che mentre il prodotto un tempo veniva acquistato dal fruitore/consumatore - si pensi a giornali, film, libri, commercializzati su supporti fisici - e quindi il lavoro e la produzione venivano remunerati , oggi la distribuzione digitale attraverso il peer to peer, la condivisione social, l'indicizzazione dei motori di ricerca, ha reso di fatto gratuita la disponibilità di ogni contenuto possibile e immaginabile.
Se è chiaro e sotto gli occhi di tutti chi ci perde in questo gioco al ribasso, meno evidente è chi sin qui ha guadagnato cifre incalcolabili nel nuovo mercato dematerializzato. Un'occhiata alle capitalizzazioni delle companies a Wall Street - solo per rimanere all'economia occidentale, ma lo stesso si replica a est del mondo, solamente con altri player - ci spiega semplicemente che i ricavi si sono spostati in massa sui fornitori di servizi di rete (Google, Facebook, Amazon ecc).
Questi, a regole attuali, non solo distribuiscono o quantomeno consentono la condivisione di prodotti non remunerati ai legittimi titolari, ma sulla base dei consumi di rete degli utenti targettizzano anche la pubblicità verso i navigatori (quello che per decenni è stato il secondo pilastro dell'industria dell'informazione e dell'intrattenimento).
Ciò che sta provando a fare l'Europa, quindi, non è altro che il tentativo di riequilibrare secondo un nuovo modello di business un mercato oggi totalmente sbilanciato a favore dei grandi monopolisti/oligopolisti della rete, che verrebbero semplicemente chiamati a “condividere”: con i legittimi titolari il valore che oggi rastrellano in solitudine.
Agitare fantasmi di censura o evocare oscure lobby, oltre che drammaticamente fallace, rischia di perpetrare un sistema economico/sociale molto polarizzato, per non dire desertificato a medio termine.