Controlli e liti

Presunzione sui redditi esteri, irretroattività non riconosciuta

Proseguono i contenziosi sugli investimenti e le attività finanziarie non dichiarate nei paradisi fiscali

AFP

di Laura Ambrosi

Investimenti e attività finanziarie nei paradisi fiscali non dichiarate si presumono redditi evasi solo dal 2009 in quanto la norma non è retroattiva. È l’interpretazione che la giurisprudenza di legittimità sembra aver ormai definitivamente assunto. Ma gli Uffici proseguono i contenziosi.

La questione

L’articolo 12 del Dl 78/2009 ha previsto che investimenti e attività finanziarie detenute all’estero in Paesi black list e non dichiarate (quadro RW) si presumono costituite con redditi sottratti a tassazione in Italia. Si tratta di una presunzione legale, avverso la quale il contribuente può fornire prova contraria. In questi casi, l’ordinario termine di decadenza dell’accertamento è raddoppiato.

Le disposizioni sono in vigore dal 1° luglio 2009. Da subito, l’amministrazione ha ritenuto la disposizione di natura procedimentale, pretendendo di applicarla retroattivamente. Tale interpretazione è stata confermata da alcuni documenti di prassi (circolare 6/E del 2015) e pertanto gli Uffici hanno applicato la presunzione a tutti i periodi d’imposta non decaduti al momento di entrata in vigore del Dl 78/2009.

La giurisprudenza

La tesi dell’amministrazione è stata inizialmente avallata dalla giurisprudenza di merito (Ctr Piemonte n. 1207 dell’8 maggio 2018; Ctr Lombardia n. 624 del 14 febbraio 2018; Ctr Lombardia n. 2401/17; Ctr Piemonte n. 1131 del 6 luglio 2016; Ctr Toscana n. 1259/2015). Tuttavia, nel 2018 la Suprema Corte (ordinanza 2662/2018), affrontando i primi casi, ha escluso la retroattività.

In sintesi, secondo i giudici di legittimità, la pretesa natura procedimentale della norma che pone in favore del fisco una più favorevole presunzione legale relativa, porrebbe il contribuente in una situazione di svantaggio. Infatti in base al quadro normativo previgente, l’interessato potrebbe non aver conservato la documentazione. Ciò pregiudicherebbe l’effettivo espletamento del diritto di difesa, in contrasto, con i principi costituzionali (articoli 3 e 24 della Costituzione).

La conferma della validità

Dopo poco tempo, la Cassazione (ordinanza 3276 del 12 febbraio 2018) ha ritenuto, invece, retroattiva la presunzione. Nell’ordinanza, apparentemente favorevole alla tesi erariale, in realtà i giudici si sono limitati a confermare la validità dell’atto, senza affrontare espressamente la decorrenza della norma.

Da evidenziare, al riguardo, che la Suprema corte può esprimersi su eccezioni correttamente sollevate nel ricorso o nel controricorso, con la conseguenza che se nessuna delle parti ha chiesto una pronuncia sulla retroattività della presunzione legale, era preclusa ogni valutazione in tal senso.

Non a caso, infatti, in seguito all’unica pronuncia favorevole all’amministrazione, la Suprema corte ha ripetutamente escluso la retroattività (tra le tante, Cassazione 2562/2019, 5885/2019, 5471/2019, 29632/19, 31085/19, 33893/19).

L’insistenza degli Uffici

Nonostante le numerose sentenze, gli uffici proseguono nei contenziosi, impugnando in secondo grado o in Cassazione le decisioni loro sfavorevoli. Il motivo è sempre il medesimo: la norma ha natura procedimentale e si applica anche per i periodi di imposta antecedenti.

L’insistenza dell’agenzia delle Entrate mal si concilia con il decantato rapporto di collaborazione e buona fede fisco-contribuente e anche, a ben vedere, con il principio costituzionale del buon andamento dei pubblici uffici. Peraltro si contribuisce, senza ragione, a inflazionare il carico di contenziosi pendenti, già elevato, presso i giudici di merito e di legittimità.

La conclusione

Dinanzi ad un orientamento ormai consolidato, dovrebbe prevalere il buon senso evitando la prosecuzione di procedimenti che comportano oneri a carico del contribuente. Nelle more di una direttiva centrale in tal senso, sarebbe auspicabile che i giudici interessati condannino adeguatamente gli uffici alle spese di lite, almeno con lo stesso rigore cui condannano i contribuenti in caso di soccombenza.

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