Prove acquisite irregolarmente, la Cassazione ribadisce l’utilizzabilità (ma un limite c’è già)
L’inutilizzabilità in base all’articolo 191 del Codice di procedura penale si potrebbe estendere al tributario
Le prove irregolarmente acquisite possono essere introdotte e assunte a base della de-cisione nel rito tributario. A confermare il principio è stata l’ordinanza 5105/2020 della Cassazione.
La vicenda esaminata dalla Cassazione
La controversia è scaturita da una verifica fiscale a una società per la quale era stata rilasciata un’autorizzazione non sottoscritta dal capo dell’ufficio, bensì dal capo area controllo, il quale all’epoca dei fatti non era provvisto di legittima delega. La società impugnava l’accertamento in Ctp che annullava l’atto per difetto di sottoscrizione dell’autorizzazione alla verifica. L’agenzia delle Entrate aveva poi appellato la sentenza avanti in Ctr che ha lo a respinto. Da qui il ricorso in Cassazione da parte delle Entrate che ha dedotto la violazione e falsa applicazione degli articoli 33 del Dpr 600/73 e 52 del Dpr 633/72.
La Suprema corte ha accolto il ricorso confermando l’orientamento secondo cui nell’ordinamento tributario non esiste un principio di inutilizzabilità delle prove illegittimamente acquisite. Tale principio, precisa la Corte, è presente nell’articolo 191 del Codice di procedura penale e vale solo all’interno del procedimento penale. L’unica eccezione riguarda gli atti istruttori illegali che ridondino in violazioni dei diritti di rango costituzionale, come l’inviolabilità della libertà personale e del domicilio o la segretezza della corrispondenza (Corte costituzionale, sentenza 34/1973).
La Corte aggiunge che dall’impossibilità di dedurre l’inutilizzabilità delle prove irritualmente acquisite, non deriva l’assenza di conseguenze. In casi del genere, infatti, le conseguenze ricadono sull’autore dell’illegittima acquisizione sul piano disciplinare e, se del caso, sul quello civile e penale.
Quest’ultima argomentazione, benché teoricamente ineccepibile, risulta non appagante per il contribuente, il quale se anche volesse esercitare un’eventuale azione di risarcimento ex articolo 2043 del Codice civile, assai difficilmente potrebbe ottenere il ristoro della maggiore somma versata in base all’accertamento viziato.
Insomma, nulla di nuovo rispetto alla tradizionale impostazione ultra-conservativa dell’atto di accertamento. La Corte motiva la decisione richiamando regole e principi di diritto validati in passato, la cui attualità, a parere di chi scrive, meriterebbe di essere nuovamente vagliata alla luce della riforma inaugurata con la delega fiscale (legge 23/2014).
L’affermazione di uno spirito partecipativo e paritario del rapporto tributario fa apparire anacronistici gli argomenti offerti nelle motivazioni dai giudici. Se parità delle armi e giusto processo sono principi effettivi, allora è il caso di eliminare dalla dinamica processuale le troppe asimmetrie che ancora resistono. Il rigido sistema di preclusioni e decadenze comminate al contribuente a fronte di comportamenti irregolari, o semplicemente inerti, mal si concilia con una dialettica processuale indulgente relativamente alle azioni del controllori.
Il Codice di procedura penale può fermare l’utilizzo
Una soluzione potrebbe trovare positiva applicazione senza il bisogno di una riforma legi-slativa. Basterebbe infatti ricordare, che, in base agli articoli 70 del Dpr 600/1973 e 75 del Dpr 633/1972, per quanto non espressamente previsto dalla normativa in materia di accer-tamento, trovano applicazione anche le disposizioni del codice di procedura penale. Quindi l’inutilizzabilità prescritta dall’articolo 191 del Cpp si potrebbe validamente estendere al processo tributario. In tal senso sembrerebbe deporre anche lo stesso secondo cui l’inutilizzabilità processuale è una conseguenza che incombe sulle prove acquisite in di-spregio della legge in generale, e non già della (sola) legislazione penale.
A ciò si aggiunga che è principio pacifico che le sanzioni amministrative tributarie hanno natura penalistica e, quindi, le prescrizioni del codice di procedura penale non possono considerarsi estranee al comparto sanzionatorio.