Controlli e liti

Difesa in salita negli avvisi basati su inchieste della Gdf

Spesso gli stralci sono troppo sintetici e vengono considerati “affidabili” dal giudice tributario

di Antonio Iorio

La rilevanza penale di molte violazioni fiscali fa sì che spesso gli accertamenti emessi dalle Entrate si basino quasi esclusivamente su stralci di atti dell’indagine di polizia giudiziaria. Stralci che però non sempre consentono un’adeguata difesa del contribuente, dal momento che in molti casi risultano parziali o omissati. Si pensi alle ipotesi di intercettazioni telefoniche o ambientali riportate o allegate soltanto in parte nell’atto impositivo o ancora a verbali di interrogatorio in cui vengono rese note solo alcune domande e risposte.

L’importanza e la frequenza nella prassi di tali situazioni emerge anche dalla circolare 1/2018 sull’attività di controllo della GdF, allorché viene testualmente rilevato che «una cospicua parte dei rilievi fiscali constatati in materia di imposte sui redditi e Iva dai Reparti si basa su elementi probatori acquisiti nell’ambito delle indagini di polizia giudiziaria, eseguite sia in materia di reati fiscali che nel campo degli altri crimini economico-finanziari e dei traffici illeciti». Peraltro, più l’indagine penale è risultata complessa e ha convolto molti soggetti, maggiore è la tendenza di riportare solo alcune parti dell’attività investigativa (anche per ovvie questioni di sintesi).

Il giudice tributario, secondo consolidata giurisprudenza, può legittimamente fondare il proprio convincimento anche sulla generalità degli elementi di prova acquisiti nel processo penale, purché però tali elementi vengano sottoposti a un’autonoma valutazione, secondo le regole tipiche della distribuzione dell’onere probatorio valevoli ai soli fini fiscali.

In concreto, però, gli interessati in questi casi hanno obiettive difficoltà a difendersi compiutamente, anche perché le commissioni tributarie – in presenza di indagini penali sfociate in misure cautelari o addirittura in condanne – raramente contraddicono tali provvedimenti e, quasi in automatico, respingono le eccezioni dei contribuenti, pur consapevoli che i due processi siano del tutto autonomi, non fosse altro perché sorretti da regimi probatori molto differenti tra loro.

Quando poi succede che, a distanza di anni, il procedimento penale si risolve in senso favorevole al contribuente – anche solo limitatamente agli aspetti fiscali costituenti reato – ormai le decisioni dei giudici tributari sono divenute irrevocabili.

In base agli articoli 33, comma 3, del Dpr 600/1973 e 63, comma 1, del decreto Iva, la Guardia di finanza – previa autorizzazione dell’autorità giudiziaria – utilizza e trasmette agli uffici documenti, dati e notizie, acquisiti direttamente o riferiti ed ottenuti dalle altre forze di polizia, nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria.

Non vi sono preclusioni circa la natura del reato per il quale i poteri di polizia giudiziaria sono stati esercitati, sicché è consentito l’utilizzo fiscale degli elementi emersi in ogni indagine penale, anche se non relativa a reati propriamente fiscali.

Il giudice nel rilasciare l’autorizzazione deve valutare, caso per caso, la possibilità di concedere il nulla osta all’utilizzo, a fini fiscali, delle risultanze investigative, anche prima del momento in cui l’indagato possa venire a conoscenza degli atti compilati. Secondo la giurisprudenza ormai consolidata di legittimità tale autorizzazione è prevista a salvaguardia del segreto delle indagini penali e non ha – diversamente da quella del procuratore della Repubblica, prevista per l’accesso ai fini fiscali – alcuna finalità di stretta tutela nei confronti del contribuente o dei soggetti coinvolti nel procedimento penale. Ne consegue che eventuali irregolarità nella concessione dell’autorizzazione non determinano l’inutilizzabilità degli elementi conoscitivi sui quali sia stato fondato l’accertamento tributario, neanche nell’ipotesi in cui questi siano stati acquisiti in assenza di autorizzazione.

La Cassazione e l’utilizzo in sede penale

1. Dichiarazioni di terzi
Le informazioni rese da persone informate sui fatti nel corso delle indagini preliminari rientrano a pieno titolo nel materiale probatorio che il giudice tributario è tenuto a valutare, dovendo questi fornire le ragioni di un eventuale giudizio di inattendibilità. D’altro canto, in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti, deve essere parimenti riconosciuta al contribuente la possibilità di introdurre, nel giudizio dinanzi alle commissioni tributarie, dichiarazioni rese da terzi in sede extraprocessuale.

2. Confessioni
Possono fondare l’accertamento anche da sole le dichiarazioni che, per il loro contenuto intrinseco, possano qualificarsi come confessorie, se raccolte nell’ambito di un procedimento penale, direttamente presso il contribuente ovvero, in caso di società, per il rapporto di immedesimazione organica che li avvince, presso i soggetti che di fatto la amministrano o legalmente la rappresentano. Tali dichiarazioni, in quanto apprezzabili quali confessioni stragiudiziali, costituiscono pertanto una prova non già indiziaria, ma diretta, del maggior imponibile e, in quanto tale, non necessitano di ulteriori riscontri.

3. Intercettazioni
Il divieto di utilizzare i risultati di intercettazioni telefoniche in «procedimenti» diversi da quello in cui furono disposte, non opera nel contenzioso tributario, ma soltanto in ambito penale, non potendosi estendere arbitrariamente l’efficacia di una norma processuale penale, posta a garanzia dei diritti della difesa in quella sede, a dominii processuali diversi, come quello tributario, muniti di regole proprie. Non è violato il diritto alla riservatezza delle comunicazioni (articolo 15 della Costituzione) in quanto le intercettazioni sono autorizzate da un giudice nell’ambito di un procedimento penale.

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