Rivalsa non pagata, nota d’accredito in bilico
La questione dell’addebito dell’Iva a seguito di accertamento implica almeno un paio di considerazioni collaterali. La prima riguarda l’autonoma sanzionabilità del cliente che a suo tempo non abbia regolarizzato l’operazione oggetto di verifica. La seconda attiene invece al comportamento da tenere nell’ipotesi in cui chi ha subito la rivalsa dell’Iva accertata non paghi.
Una volta messa in salvo la detrazione dell’Iva addebitata dal fornitore va considerato che questi potrebbe non rimanere indenne da sanzioni. Infatti, l’articolo 6, comma 8, del Dlgs 471/1997, punisce il cessionario o committente che omette di regolarizzare nei termini di legge tanto il mancato ricevimento di una fattura, quanto la “sistemazione” di quella ricevuta, ma irregolare. Quindi, al di fuori dei (rari) casi in cui l’accertamento interviene in un momento in cui v’è ancora tempo per la regolarizzazione, la contestazione si riverbera sul cliente il quale, fermo restando il diritto a detrarre la maggiore imposta emersa a seguito del controllo (e pagata al fornitore), si vedrà comminata la sanzione del cento per cento dell’Iva (minimo 250 euro).
A questo punto, si deve valutare anche cosa accade, questa volta in capo a chi, a norma dell’art. 60, comma 7, Dpr 633/72, ha esercitato la rivalsa a fronte dell’accertamento, quando il cessionario o committente non paghi la (maggiore) Iva addebitatagli. Infatti, il soggetto verificato, da una parte ha pagato l’imposta all’erario, ma dall’altra non la incassa, rischiando quindi che questa resti definitivamente a suo carico.
In tal senso si è espressa l’Aidc con la norma di comportamento 195 del 2016, la quale ha ulteriormente affermato che «di conseguenza, il fornitore, per non rimanere inciso da quanto versato all’erario, deve poter procedere a rettifica in diminuzione della maggiore imposta accertata, oggetto di rivalsa ma non corrisposta dal cessionario o dal committente».
Anche in questo caso il meccanismo di funzionamento dell’imposta, costituito dall’esercizio della rivalsa cui consegue il diritto alla detrazione, non pare soffrire specifiche limitazioni rispetto alla normalità dei casi (salvo quelle dettate dall’articolo 60, comma 7): il fornitore addebita l’Iva (versata all’erario) e il cliente può detrarre l’imposta (previo pagamento al fornitore). Il fatto che non sia corrisposta l’Iva accertata, oltre a comportare l’indetraibilità della stessa per chi ha subito la rivalsa, implica (solo) la necessità di gestire la fattispecie come avviene con un “normale” credito commerciale, comprensivo dell’imposta, se dovuta.
Ecco quindi che il recupero dell’imposta tramite nota di variazione in diminuzione dovrebbe essere possibile nei casi previsti dall’articolo 26 del Dpr 633/1972 (la cui disciplina andrebbe però rivista in senso più favorevole). Nella sostanza, non basterebbe il mancato incasso del credito per ottenere la “restituzione” dell’imposta dall’erario, dovendosi invece verificare una delle situazioni individuate dalla norma. La nota in diminuzione risulterebbe dunque ammessa a fronte di una procedura concorsuale o a seguito di un accordo di ristrutturazione del debito omologato o di un piano attestato pubblicato nel registro imprese, ovvero in presenza di procedure esecutive rimaste infruttuose.