Professione

Software, auto e «marchio»: quando la spesa è inerente

di Giorgio Gavelli

Anche negli accertamenti riguardanti il reddito di lavoro autonomo, parallelamente a quelli sul reddito d’impresa, il concetto di inerenza di una determinata spesa è spesso presente e costituisce l’elemento principale di discussione nella successiva fase di contenzioso. Tuttavia – ma forse proprio per questo – gli articoli del Tuir dedicati a questa tipologia reddituale (due in tutto: il 53 e il 54) non nominano mai questo concetto come, invece, avviene in altri contesti (ad esempio, all’articolo 108, sui requisiti per qualificare le spese di rappresentanza). Persino in ambito Irap, e sempre con riferimento al reddito di lavoro autonomo, l’articolo 8 del Dlgs 446/1997, prevede che: «La base imponibile è determinata dalla differenza tra l’ammontare dei compensi percepiti e l’ammontare dei costi sostenuti inerenti alla attività esercitata», anche se, pure in questo caso, il concetto resta privo di definizione.

Il legame con l’attività
Per riempire di significato il requisito dell’inerenza, occorre quindi far riferimento alla giurisprudenza della Corte di cassazione, agli interventi di prassi ed alle elaborazioni dottrinali che, sul punto specifico, non si discostano dalle conclusioni raggiunte con riferimento all’impresa.

Si tratta, infatti, di un concetto che va ricercato a monte della disciplina delle singole imposte, essendo di diretta emanazione del principio costituzionale di capacità contributiva.

Il reddito tassabile, infatti, è generalmente il risultato di una somma algebrica tra proventi e oneri, entrambi funzionalmente connessi all’attività produttrice di materia imponibile. Pertanto, quando l’articolo 54 del Tuir sancisce che il reddito dei professionisti e degli artisti è costituito dalla differenza tra proventi percepiti nel periodo e spese «sostenute nel periodo stesso nell’esercizio dell’arte o della professione», ha già introdotto il concetto di inerenza, senza ulteriori precisazioni.

Non si tratta, peraltro, di una relazione diretta, tale da far sorgere l’obbligo di dover sempre individuare a quale specifico compenso si riferisce il singolo costo. Il legame, infatti, come insegna la giurisprudenza di legittimità, non è tra singolo costo e singolo provento, ma tra onere sostenuto ed attività esercitata. È ovvio, infatti, che l’affitto dello studio professionale o la manutenzione degli strumenti elettronici non sono specificatamente connessi a singoli incarichi, ma riguardano l’intera attività svolta, indipendentemente dal fatto che questa si dimostri proficua o meno.

Applicazione e costi a forfait
L’applicazione pratica non è tra le più semplici (si veda la scheda a fianco). Se, infatti, è abbastanza intuitivo considerare inerenti all’attività svolta il camice per il medico (così come la toga per l’avvocato) ovvero il contributo annuale di iscrizione all’Ordine per il professionista, parecchie perplessità nascono nel momento in cui ci si interroga sulla deducibilità dell’acquisto di un abito di marca (sicuramente opportuno per le relazioni professionali, ma utilizzabile anche nella vita privata) o della tassa d’iscrizione ad un prestigioso circolo sportivo (altrettanto utile per incontrare clienti attuali o potenziali, ma con un innegabile connessione ludico-ricreativa). Come spesso accade, quindi, anche questo tema va approcciato con equilibrio e buon senso, ricordando che il legislatore ha già previsto alcune forfettizzazioni dell’inerenza, proprio per evitare l’eccesso di soggettività (ed il conseguente, inevitabile contenzioso).

All’articolo 164 Tuir troviamo, infatti, la percentuale di deducibilità dei veicoli a motore, mentre lo stesso articolo 54 prevede, al comma 3, la deducibilità al 50% per una serie di costi promiscui, ed al comma 5, il limite dell’1% dei compensi percepiti nel periodo per la deducibilità delle spese di rappresentanza, nell’ambito delle quali sono collocati ex lege gli acquisti di oggetti di arte, di antiquariato o da collezione, anche se utilizzati come beni strumentali per l’esercizio dell’arte o della professione, nonché di beni destinati ad essere ceduti a titolo gratuito.

Proprio con riferimento alle limitazioni di deducibilità, molto si è discusso in passato in merito alle spese di aggiornamento, a quelle sostenute direttamente dal cliente o analiticamente riaddebitate in fattura dal professionista (viaggio, ristorazione, pernottamento, eccetera).

Attualmente, dopo le modifiche apportate al comma 5 dell’articolo 54 da una serie di provvedimenti (Dlgs 175/2014, Dl 193/2016 e, soprattutto, la legge 81/2017, il “Jobs act degli autonomi”) la disciplina può dirsi equilibrata e le novità (anche se formalmente efficaci solo dalla loro introduzione) dovrebbero guidare razionalmente le verifiche ed i contenziosi sul passato.

FOCUS/ Il paradosso sugli interessi
Con riferimento al reddito di lavoro autonomo non è possibile un fraintendimento sull’inerenza:il comma 5 dell’articolo 109 del Tuir è confinato al reddito d’impresa. La norma, che prevede un rapporto di deducibilità in presenza di proventi esclusi o non imponibili, è stata talvolta richiamata dalla Cassazione (ad esempio con la sentenza 14702/2001) come fonte del requisito di inerenza, con il risultato (un po’ paradossale) che gli oneri finanziari, esclusi per legge dal rapporto, finirebbero per essere deducibili anche se non inerenti, ma solo per i soggetti Ires: l’articolo 61 Tuir, infatti, consente di spesare solo «gli interessi passivi inerenti all’esercizio d’impresa».

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