Controlli e liti

Sulla Pex l’Agenzia fa una retromarcia allarmante

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di Andrea Manzitti

Ci sono voluti sette lunghi e sofferti anni, dalle sentenze di Natale 2008 all'articolo 10-bis dello Statuto del contribuente, per fare chiarezza sulla complessa tematica dell'elusione. Ma era davvero giunta l'ora. Raramente il legislatore aveva stigmatizzato con altrettanta forza gli svarioni dell'amministrazione finanziaria e dei giudici. Con la massima risolutezza consentita dal garbo istituzionale, la relazione illustrativa al 10-bis affermò che «alcune recenti sentenze della Corte di Cassazione hanno aperto nuove prospettive ermeneutiche» generando «incertezza, con effetti negativi sulla credibilità e sulla stabilità di medio e lungo periodo della politica tributaria». Nel commentare il comma 4 del 10-bis - secondo il quale «resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale» - la relazione spiegò che la norma è espressione del «principio generale secondo cui il contribuente può legittimamente perseguire un risparmio d'imposta esercitando la propria libertà di iniziativa economica e scegliendo tra gli atti, fatti e i contratti quelli meno onerosi sotto il profilo impositivo». Per qualche tempo, l'agenzia delle Entrate aveva reagito in perfetta conformità alla voluntas legis , ricordando la necessità di ricercare la ratio delle norme tributarie, unico benchmark su cui misurare il carattere indebito del risparmio fiscale abusivo per distinguerlo dal legittimo risparmio d'imposta.

Leggendo la risoluzione 185 del 2019 sembra essere tornati indietro di una decina d'anni. La risoluzione esamina il caso di una Snc che ha deciso di trasformarsi in Srl, conferire un ramo di azienda in una società neocostituita e cedere il 70% di quest'ultimo a terzi, realizzando una plusvalenza. Il tutto in rapida successione ed in esecuzione di un unico piano. Per essere sicura che per il calcolo dell'holding period si possa tenere buono anche il periodo pre-trasformazione, interpella l'Agenzia che senza esitazioni conferma. Senza che fosse stato richiesto, però, l'Agenzia aggiunge che l'operazione è abusiva perché la trasformazione da Snc a Srl appare «ultronea rispetto all'obiettivo economico perseguito di cedere il 70% delle quote della Newco Srl e preordinata a consentire l'ottenimento di un indebito vantaggio fiscale», cioè la tassazione Pex della plusvalenza.

È una affermazione dirompente che segna una decisa involuzione rispetto al recente passato, e che speriamo sia presto corretta. Una analisi serena avrebbe agevolmente condotto alla conclusione che la tassazione Pex non è un regime fiscale di favore per chi vende partecipazioni o aziende. Non è una specie di regalo fiscale che un legislatore disattento o capriccioso ha distribuito senza criterio. Esiste una consapevole e voluta equivalenza impositiva tra la compravendita di aziende mediante cessione di partecipazioni in regime Pex, ma senza riconoscimento dei maggiori valori fiscali e quella mediante cessione diretta dell'azienda in regime realizzativo, ma con riconoscimento dei maggiori valor fiscali. Il punto era stato perfettamente colto nella risoluzione 97 del 2017, in cui l'Agenzia aveva affermato che i due regimi fiscali «sebbene comportino criteri di imputazione del reddito imponibile, valori fiscali e carichi fiscali differenti, … costituiscono alternative diverse, tutte poste sullo stesso piano e aventi, quindi, pari dignità fiscale».

Dopo poco meno di due anni, questa caratteristica fondamentale del nostro sistema di tassazione è stata ignorata e l'Agenzia ha disinvoltamente affermato che il regime Pex è, di per sé, un indebito vantaggio fiscale. Qualcuno potrà obiettare che la Pex vale per le società di capitali e non per le società di persone e che ad essere abusiva è la trasformazione anterograda “finalizzata” a ottenere il regime Pex. Con tutto il rispetto, l'obiezione è priva di senso. Esiste un motivo semplice che regge la scelta legislativa di riservare la Pex (tassazione del “solo” 5%) alle società di capitali e non la estende alle società di persone (i cui soci sono tassati per trasparenza “solo” sul 58% circa della plusvalenza). Nel primo caso, è la società di capitali a incassare il prezzo e i suoi soci (se persone fisiche) pagheranno un ulteriore 26% quando prenderanno i dividendi o monetizzeranno l'utile vendendo le partecipazioni. Nel secondo caso, i soci anticipano il pagamento dell'imposta ma possono subito mettersi in tasca la loro quota di plusvalenza, senza aggravi fiscali ulteriori. Ad una aliquota marginale del 43% più addizionali, l'imposta dovuta sulla plusvalenza è più o meno il 26%, esattamente come nel primo caso. Il risparmio fiscale, dunque, non esiste. Qualcuno potrebbe dire che nel primo caso esiste un vantaggio finanziario perché il pagamento del 26% potrebbe essere differito nel tempo, ma non me la sento di commentare questa obiezione. C'è un limite a tutto.

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