Sulle professioni inutili trincee che non rallenteranno il futuro
Tranne qualche rara eccezione, nell’interessante dibattito del Sole 24 Ore sul futuro delle professioni in Italia, ho notato una specie di convitato di pietra: il sistema associativo-professionale di cui alla legge 4/2013. Eppure si tratta di un sistema con numeri importanti: più di 3,5 milioni di professionisti, di cui 1,5 milioni riuniti in circa 1.500 associazioni. Persone che producono in base ai dati di importanti istituti di ricerca almeno il 9% del Pil e, con le aziende collegate, più del 21 per cento della ricchezza nazionale.
Tale assenza è da sottolineare perché la legge n. 4/2013 ha promosso la piena visibilità istituzionale di queste professioni offrendo ai consumatori parametri significativi di selezione qualitativa dei relativi professionisti. Un mondo sempre più strategico anche per il futuro di Industria 4.0: informatica e web, comunicazione e marketing, consulenza finanziaria e immobiliare, formazione e management, solo per ricordarne alcune.
La dualità (ormai anche giuridica) delle regolazioni esistenti (modello ordinistico, modello associativo) ci deve allora far interrogare su quale sia lo strumento migliore per realizzare gli scopi della normazione sulle professioni che, come sappiamo, deve garantire la tutela dei consumatori nel pieno rispetto delle regole Ue. Ovvero senza introdurre restrizioni o monopoli che precludano la libera circolazione delle persone e dei servizi generando ostacoli alla crescita del mercato.
Pensiamo allo smart working. Non è la stessa cosa lavorare in una fabbrica, in università o a casa propria. L’orizzonte è diverso ed è quello della produzione anche tecnologica di saperi in rete, senza luoghi o orari di riferimento. L’ufficio siamo noi. E questo significa che diventiamo tutti più o meno professionisti, a prescindere dalla forma organizzativa (dipendente, autonoma, libero professionale, ecc.) con cui esercitiamo l’attività. Un’innovazione introdotta, fra l’altro, proprio dalla legge 4/2013.
Anche il Jobs act sul lavoro autonomo, per quanto innovativo su maternità, malattia e formazione, trascura la velocità con la quale si evolve il Mondo 4.0. Come ci dice l’Istat, in Italia ci sono 9 milioni di lavoratori che verranno sostituiti dalle macchine nei prossimi 7-10 anni. E tanti saranno professionisti, anche nel senso più ristretto del termine.
In tutto il dibattito sul mercato del lavoro e delle professioni (i cui confini sono sempre più indistinti: pensiamo alle richieste di ammortizzatori sociali e di equo compenso), si tende invece sempre a raggiungere l’obiettivo tattico, “dimenticando” quello strategico di costruire una normativa adeguata ad affrontare il cambiamento radicale del prossimo futuro.
Perché? Purtroppo, gran parte delle leggi in questo Paese sono il campo di battaglia della difesa di interessi di fazioni e piccoli monopolisti (pensiamo alle “trincee” sul Ddl Concorrenza) a cui “forse” sfugge che il vero teatro di guerra è ormai quello dei grandi monopolisti della “data driven economy”. Se ne stanno accorgendo per primi i professionisti più esposti sui mercati internazionali, ma nel giro di 3-5 anni lo tsunami arriverà per tutti. Grandi e piccoli.
Un esempio di queste “trincee”? La devoluzione di funzioni della Pa alle professioni ordinistiche di cui all’articolo 5 della 81/2017. Perché ci sarebbe questa urgenza (da esercitarsi con una delega a fortissimo rischio di incostituzionalità) di devolvere funzioni ai professionisti, per di più solo ordinistici?
Per rispondere, pensiamo al fatto che molte delle attuali professioni regolamentate saranno oggetto nel 2018 del cosiddetto “Esercizio di trasparenza” (Dlgs 55/2016) e, in futuro, della proposta di Direttiva Ue sul “Test di proporzionalità” (Pacchetto Servizi). Tali attività hanno l’obiettivo di valutare la proporzionalità in tutti gli Stati membri di ogni restrizione all’esercizio di una professione per eliminare quelle sproporzionate o non dettate da motivi imperativi di interesse generale. Quali conseguenze? La possibile eliminazione delle esclusive di una serie di professioni e delle logiche di iscrizione obbligatoria. A pensar male, allora, lo scopo dell’articolo 5 potrebbe essere quello rimpinguare le funzioni pubblicistiche di certe professioni per resistere all’impatto di tali direttive ed evitare di perdere privilegi e risorse.
Come dire: cercare di difendere qualche rendita di posizione che verrà spazzata via nel giro di poco tempo, senza invece pensare a collaborare per rendere il sistema professionale competitivo sulle competenze e sull’innovazione.