Un antiriciclaggio sempre meno capace di obiettivi mirati
Con l’ingresso di delitti colposi e contravvenzioni tra i presupposti si rischia di sparare nel mucchio
L’eterogenesi dei fini nella lotta al riciclaggio. E forse persino Wundt, al quale si deve l’enunciazione del principio, si interrogherebbe sulla intenzionalità o meno delle conseguenze prodotte. Certo è che negli ultimi decenni la strategia di contrasto è completamente mutata. Negli anni ’90 il riciclaggio era un reato difficile da incontrare nelle aule di giustizia, al più camuffato sotto le vesti del taroccamento degli autoveicoli, addirittura un oggetto misterioso nelle statistiche giudiziarie in termini di condanne. Ma questa versione dallo scarso appeal appartiene ormai al passato e tradisce un’ingenuità di fondo persino sospetta. Quali allora le ragioni del cambio di passo? Sostanzialmente due. Sul fronte repressivo, l’introduzione di nuove fattispecie incriminatrici (il reimpiego, l’articolo 648-ter del Codice penale, del 1990; l’autoriciclaggio, l’articolo 648-ter.1 del Codice penale, del 2014, curiosamente inserito nel varo della voluntary disclosure), la previsione della responsabilità della persona giuridica anche per tali delitti, l’inasprimento lato sensu sanzionatorio (la confisca, diretta o per equivalente, articolo 648-quater del Codice penale, del 2007). Su quello preventivo, un articolato e trasversale reticolo di misure dissuasive o comunque di intercettazione delle modalità di money laundering. Si tratta dei noti obblighi di collaborazione attiva, la cui data di nascita risale al 2007, con l’inarrestabile trend di crescita in quantità e qualità. La platea dei destinatari viene infatti costantemente aggiornata, ampliandola a ulteriori categorie toccate dalle nuove fenomenologie. Il ventaglio dei doveri arricchito da analisi e report più penetranti e specifici. Ma è soprattutto sul versante della qualità lo stacco maggiore. Se si prende a modello il più importante dei sistemi di compliance, la segnalazione di operazioni sospette, è di palmare evidenza come il suo nucleo originario sia cresciuto a dismisura. L’articolo 35 Dlgs 231/2007, nella versione ultima, prevede che la Sos scatti «quando sanno, sospettano o hanno motivi ragionevoli per sospettare che siano in corso o siano state compiute o tentate operazioni di riciclaggio o di finanziamento del terrorismo o che comunque i fondi, indipendentemente dalla loro entità, provengano da attività criminosa». Segue descrizione minuziosa e pedante sui parametri di individuazione del sospetto. Ebbene, a parte la formula criptica quanto “onnivora” dei «motivi ragionevoli per sospettare», che finisce per addossare all’obbligato una presunzione di anomalia, è proprio la locuzione finale (i fondi provenienti da qualsiasi attività criminosa) a smarrire il nesso funzionale con il riciclaggio e a trasformare il segnalante in un ausiliario di polizia, incaricato di scovare tracce di proventi illeciti.
Con una strizzatina d’occhio, neppure accennata, al terreno fertile dell’evasione fiscale. Il troppo storpia? Certo, non desta meraviglia da questa premessa che il numero delle Sos sia in crescita costante e che l’Uif rischi di accumulare arretrati per il massivo carico di lavoro. Ma è l’orizzonte a destare maggiori preoccupazioni. Il recepimento della direttiva Ue 1673/2018 attraverso il decreto legislativo di novembre ha previsto due profonde modifiche del fatto tipico, includendo tra i reati-presupposto i delitti colposi e le contravvenzioni. L’esigenza di adeguarsi alle scelte di politica criminale europea sconta tuttavia il limite dell’assenza di un modello omogeneo definitorio e di grammatica comune del diritto penale, nonché l’affollato catalogo di reati bagatellari che compongono il panorama italiano. Oltre alla circostanza che il predicate crime per costante giurisprudenza non deve essere accertato, essendo sufficiente anche il mero riscontro indiziario logico. Sicché il pericolo è quello, paradossalmente, di sparare nel mucchio, rischiando di fare cilecca o cogliere bersagli innocenti. L’eterogenesi dei fini, appunto.
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di Eugenio della Valle