Imposte

Digital tax, rinvio inevitabile: in fumo i primi incassi 2019

di Alessandro Galimberti

Le incertezze del quadro internazionale finiscono per arenare, almeno per il momento, la digital tax italiana.

A tre giorni dal termine previsto dalla legge di bilancio - e come anticipato dal Sole 24 Ore del 5 aprile scorso - non c’è traccia dei vari provvedimenti attuativi previsti per l’entrata in vigore della Digital service tax (Dst), circostanza che farà inevitabilmente slittare - nella migliore delle ipotesi - i primi incassi dei 150 milioni di euro di gettito per l’esercizio in corso (e 1,2 miliardi di euro contabilizzati per il biennio successivo).

Dal ministero dell’Economia e delle Finanze lasciano trapelare che lo stallo tale non è, che si stanno invece facendo valutazioni anche e soprattutto sul versante europeo dove - pur prescindendo dalle imminenti elezioni - otto Paesi continuano a opporsi alla tassa “anti Over the top” e dove la presidenza di turno romena ha da tempo chiarito che non tornerà sul tema fino al termine del semestre (cioè a fine giugno di quest’anno).

Sul tema pendono poi varie perplessità, non solo dottrinali, sul rischio di infrazione alle regole del divieto di doppia imposizione, oltre che di individuazione “territoriale” delle transazioni effettuate con dispositivi mobili (smartphone e tablet soprattutto).

La legge di bilancio (numero 148/2018), in ogni caso, ha ancorato l’avvio della Dst a una tempistica molto precisa, legata all’emanazione (entro il 30 aprile appunto) di una serie di provvedimenti.

In particolare un decreto del Mef, adottato in concerto con il ministero dello Sviluppo economico e sentiti l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, il Garante per la protezione dei dati personali e l’Agenzia per l’Italia digitale, dentro cui stabilire «le disposizioni di attuazione dell’imposta sui servizi digitali».

A seguire sono attesi uno o più provvedimenti del direttore dell’agenzia delle Entrate per definire «le modalità applicative» della tassa digitale.

All’esito di tutto ciò, ed entro 60 giorni dal decreto del Mef/Mise, la Dst all’italiana diventerà (diventerebbe) operativa.

Nella migliore delle ipotesi, quindi, la web tax sarebbe partita nel secondo semestre, ora qualsiasi previsione appare azzardata ed è tutt’altro che remota la possibilità dell’ennesima falsa partenza, come già accaduto per la norma prevista nella legge di bilancio dello scorso anno (205/2017).

L’imposta sui servizi digitali disegnata lo scorso inverno per certi versi è nel solco dei lavori della Commissione europea confluiti nella proposta di direttiva del 21 marzo 2018. Sotto il profilo soggettivo, la prima condizione per l’applicazione è individuata nell'esercizio dell’attività d'impresa.

È poi necessario il superamento, nel corso dell’anno solare, di una doppia soglia di ricavi: l’ammontare complessivo, cioè “globale” di quelli realizzati (non inferiore a 750 milioni di euro) e il totale dei ricavi derivanti da «servizi digitali» conseguiti nel territorio dello Stato, che non deve essere inferiore a 5,5 milioni di euro. Il superamento delle soglie rileva anche a livello di gruppo.

Al verificarsi contemporaneo di queste due condizioni l’imposta colpisce sia le imprese non residenti sia quelle residenti in Italia, indipendentemente dalla natura dei committenti, sia i ricavi da business-to-business sia quelli da business-to-consumer.

La web tax italiana, per come è stata strutturata, va a colpire tutti i tre ambiti dell’economia digitale, dal commercio elettronico alle piattaforme multiparti (multi-sided platform) come per esempio Airbnb, Uber, Foodora, Blablacar, ma anche le attività degli Over the top, ovvero i grandi portali web come Google, Facebook, Twitter, Youtube. In questo caso, gli utenti accedono gratuitamente al sito web, ma in cambio conferiscono ai portali informazioni personali preziose che sono il nuovo valore aggiunto dell’economia digitale.

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