Contabilità

Cessione delle partecipazioni rivalutate, confini sottili per la clausola antiabuso

di Michela Folli e Marco Piazza

La risposta dell’agenzia delle Entrate 341 del 2019 riguarda l’applicazione della clausola generale antiabuso (articolo 10-bis della legge 212 del 2000) nel seguente caso riferito ad una società industriale posseduta pariteticamente da due nuclei familiari.

Per risolvere un conflitto generazionale, due esponenti della seconda generazione (uno per ciascuna famiglia) che possiedono rispettivamente il 10% e il 17,5% della società costituiscono pariteticamente una nuova società, con la quale acquistano il 72,5% della società industriale dagli altri soci, con pagamento immediato del 50% del prezzo. La nuova società inoltre acquista il 7,5% dal socio che possiede il 17,5% della società industriale. Al termine di queste operazioni la società industriale è posseduta all’80% dalla nuova società; il residuo 20% è posseduto partitamente dai due soci di seconda generazione proprietari della nuova società.

Successivamente le due società vengono integrate mediante una fusione inversa. La nuova società quindi si trova a detenere l’azienda con un debito verso i vecchi soci pari al 50% del suo valore. Il debito sarà garantito dai due soci di seconda generazione. Dall’interpello non risulta, ma è ovvio che sono state poste in essere le procedure richieste per le operazioni di fusione con indebitamento.

Dalla risposta si desume che la validità dell’obiettivo economico perseguito – consistente nel concentrare la proprietà dell’azienda industriale nelle mani dei soci di seconda generazione – non è messa in discussione.

Tuttavia, la risposta giudica l’operazione contestabile sotto il profilo dell’abuso del diritto poiché, aggirando le disposizioni tributarie per le quali in caso di recesso tipico non assume alcuna rilevanza la rivalutazione fiscale delle quote di partecipazioni possedute, produce un vantaggio fiscale indebito.

Viene così resa nota l’opinione dell’Amministrazione finanziaria riguardo ad una questione da tempo dibattuta (v. Assonime, circolare 21 del 2016, pag. 107): se sia in contrasto con la ratio della disciplina sulla rivalutazione delle partecipazioni mediante pagamento di una imposta sostitutiva (articolo 5, legge 448 del 2001) – e sia quindi potenzialmente elusivo – il complesso di operazioni con cui i soci persone fisiche che abbiano effettuato la rivalutazione fuoriescano dalla compagine societaria mediante la cessione delle proprie partecipazioni ad una holding costituita e posseduta dai soci “superstiti” e la holding – anche attraverso una fusione con indebitamento che coinvolga la società target – finanzi l’acquisto utilizzando riserve di utili della target stessa.

Legittimità fiscale del merger leverage buy out

Osserviamo che l’operazione ha tutte le caratteristiche di un merger leverage buy out, in quanto, i soci di nuova generazione acquistano il controllo dell’azienda dagli altri soci attraverso una fusione con indebitamento che consente loro di finanziare in parte l’acquisto con risorse della società obiettivo.

In linea generale, l’utilizzo della fusione con indebitamento nell’ambito di operazioni di acquisizione non è elusiva (circolare 6/E del 2016; Assonime Note e Studi n. 6/2016). Ciò è confermato, anche di recente, dalla sentenza di Cassazione 868 del 2019 (che si distingue per essere supportata da motivazioni molto ben approfondite). In questo contesto, alcuni interpelli (Risposte 88, 94 e 127 del 2018) hanno riguardato essenzialmente la disapplicazione dei limiti alla riportabilità di posizioni soggettive (perdite, base Ace, interessi passivi) nell’ambito della fusione e non l’applicazione della clausola antielusiva generale.

Quando entra in gioco la clausola generale antiabuso

Vi sono però diverse situazioni in cui la clausola antielusiva generale può entrare comunque in gioco. Per verificare l’applicabilità della clausola devono essere fatte, caso per caso, distinzioni molto sottili, dovendosi tener conto anche del comma 4 dell’articolo 10-bis della legge 212 del 2000, secondo cui “resta ferma la libertà di scelta del contribuente tra regimi opzionali diversi offerti dalla legge e tra operazioni comportanti un diverso carico fiscale”.

In base a questa norma, - come osserva l’Assonime, circolare 27 del 2018, pag. 17 – l’aver scelto (per raggiungere un determinato obiettivo) una specifica operazione o una pluralità di operazioni in luogo di altre solo per ottenere un risparmio d’imposta o, comunque, per non incorrere negli oneri fiscali che le altre alternative avrebbero presentato, è di per sé una giustificazione sufficiente a legittimare la scelta del contribuente.

Ma queste conclusioni valgono purché non risultino “violati” i principi dell’ordinamento fiscale e la ratio del regime fiscale di cui viene fatta applicazione”. In questo secondo caso – cioè in presenza di un vantaggio tributario indebito – occorre ricercare altre particolari ragioni economiche extrafiscali che giustifichino l’operazione.

In sostanza (Assonime, circolare 27 del 2018, pag. 30) “l’abuso sussiste quando coesistano un elemento oggettivo e un elemento soggettivo. Il primo (elemento oggettivo) consiste nel conseguimento di un vantaggio tributario che si configura come indebito perché in contrasto con la ratio delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento. Il secondo (elemento soggettivo), che è parimenti necessario, attiene alla circostanza che la condotta seguita dal contribuente risulti preordinata al conseguimento di tale vantaggio, sicché non sussistono ragioni extrafiscali idonee a giustificare le modalità con le quali l’operazione è stata attuata”.

Si tratta di una lettura coerente con l’undicesimo considerando alla direttiva 2016/1164 (cd. ATAD 1) in cui si spiega che «all’interno dell’Unione le norme generali antiabuso dovrebbero essere applicate alle costruzioni che non sono genuine; in caso contrario il contribuente dovrebbe avere il diritto di scegliere la struttura più vantaggiosa dal punto di vista fiscale per i propri affari commerciali».

È forse in questo schema concettuale che deve inquadrarsi la prassi (principi di diritto n. 1 e 20 del 2019 e risposta 341 del 2019) che , a prima vista, sembra ignorare totalmente il comma 4 dell’articolo 10-bis, ma che probabilmente poggia la presunzione di abuso sul fatto che, attraverso una serie di operazioni, il contribuente abbia fruito – nel contesto di operazioni di MLBO – di determinati regimi agevolativi in contrasto con la loro “ratio”, senza aver, peraltro, perseguito valide ragioni economiche extrafiscali. Il rischio di abuso, quindi, non riguarda l’operazione di MLBO in sé, ma l’uso distorto di alcune disposizioni applicabili nel contesto dell’operazione.

Il reinvestimento e l’abuso delle agevolazioni ACE

Il Principio di diritto 1 del 2019 ha giudicato, ad esempio, che se i gli ex soci della target che intendono effettuare un parziale reinvestimento nel veicolo a cui hanno ceduto la partecipazione, anziché compensare il credito commerciale derivante dalla vendita delle azioni nella società target fino a concorrenza dell’ammontare da reinvestire nella società-veicolo, ottengono il pagamento del credito e utilizzano la corrispondente liquidità per effettuare il reinvestimento, violano la ratio ispiratrice dell’ACE creando base ACE artificiosa, perché pur avendo realizzato un incremento patrimoniale della società-veicolo in termini di patrimonio netto, non hanno immesso nuove risorse finanziarie.

La violazione della ratio delle norme sulla rivalutazione delle partecipazioni. Il leverage cash out

Viene invece violata la ratio ispiratrice delle norme che consentono di rivalutare il costo fiscale delle partecipazioni mediante pagamento di una imposta sostitutiva (ad es. l’art. 5 della legge n. 448 del 2001) quando un’operazione di MLBO è inquadrabile nella sottospecie del cd. leverage cash out che tipicamente si verifica quando:

- i soci persone fisiche di una società che sia titolare di riserve di utili rivalutino le partecipazioni della società e cedano le partecipazioni stesse ad una holding posseduta dai medesimi soci che si indebiterebbe per l’acquisto;

-dopo l’acquisto la holding e la società target vengano fuse .

Questa operazione ha come unico effetto quello di consentire ai soci di incassare le riserve della target senza scontare l’imposta sulla distribuzione dei dividendi, ottenendo così un vantaggio fiscale che si pone in contrasto con la ratio delle disposizioni che disciplinano la rivalutazione ai fini fiscali delle partecipazioni, consistente nel favorire la circolazione delle partecipazioni (Assonime circolare 21 del 2016, nota 81 e par. 2.3; principio di diritto 20 del 2019; risposta 341 del 2019).

Una variante dello schema sopra descritto è quella in cui non viene effettuata la fusione e la holding intermedia salda il debito per l’acquisto delle partecipazioni utilizzando la liquidità proveniente dai dividendi distribuiti dalla target (parere del Comitato consultivo n. 26 del 2000; Assonime, circolare 21 del 2016, pag. 107).

Si tratta di operazioni cosiddette “circolari” perché non determinano una modificazione significativa dell’assetto giuridico economico preesistente del contribuente e le scelte compiute determinano, in sostanza, effetti prettamente fiscali (Assonime, circolare 21 del 2016, pag. 59).

Anche in questi casi non è in discussione la legittimità della fusione con indebitamento, ma l’uso improprio (“non genuino”, in contrasto con la sua “ratio”) della disciplina sulla rivalutazione delle partecipazioni senza l’esimente di aver perseguito un valido obiettivo extrafiscale.

L’aggiramento delle norme su recesso tipico

Ma, al di fuori del caso delle “operazioni circolari”, i confini della genuinità dell’operazione non sono ancora ben definiti perché dipendono dall’esatta individuazione della ratio delle disposizioni agevolative sulla rivalutazione delle partecipazioni.

Ad esempio, restando nel campo delle leggi di rivalutazione delle partecipazioni mediante pagamento di una imposta sostitutiva, essendo la ratio di queste norme, secondo l’Agenzia delle Entrate (da ultimo, risposta 341 del 2019), solo quella di agevolare la circolazione delle partecipazioni, le leggi citate sono efficaci solo ai fini della determinazione dei “redditi diversi di natura finanziaria” (capital gain) e non dei “redditi di capitale” (distribuzione di utili).

Fra le operazioni suscettibili di generare “redditi di capitale” vi è il cosiddetto “recesso tipico”, attuato tramite l’annullamento e il rimborso della partecipazione detenuta, mentre il recesso cd. “atipico”, che si attua mediante la cessione a titolo oneroso della partecipazione agli altri soci ovvero a soggetti terzi estranei alla compagine sociale, genera redditi diversi di natura finanziaria (capital gain).

Partendo, dunque, dall’idea che la ratio della rivalutazione sia di agevolare la circolazione delle partecipazioni, la cessione delle partecipazioni rivalutate da parte di alcuni soci della target ad una holding costituita dagli altri soci che paghi il corrispettivo con risorse della target (conseguite per mezzo di una fusione con indebitamento oppure con dividendi provenienti dalla società ceduta) violerebbe la ratio della norma sulla rivalutazione della partecipazioni in quanto, esaminata nel suo complesso, con l’operazione non si realizzerebbe un disinvestimento effettivo da parte del socio ma solo un incasso “indiretto” dei dividendi della società partecipata le cui partecipazioni rimangono nella disponibilità del socio attraverso un possesso indiretto (tramite, cioè, la holding). Questa teoria – esposta, in alternativa ad altre, a pag. 49 della circolare Assonime 21 del 2016 – è evidentemente quella condivisa dall’Agenzia delle Entrate.

Nella risposta 341 del 2019, infatti, l’Agenzia, in sostanza, afferma che il disegno prospettato comporterebbe un numero superfluo di negozi giuridici, il cui perfezionamento non è coerente con le normali logiche di mercato, ma appare idoneo unicamente a far conseguire un vantaggio fiscale indebito ai soci che non intendono proseguire l’attività d’impresa i quali in pratica utilizzerebbero la rivalutazione per realizzare gli effetti di un recesso tipico concordato con gli altri soci (praticamente una acquisto di azioni proprie finalizzato al loro annullamento); una tipologia di operazione che le norme sulla rivalutazione delle partecipazioni non intendono agevolare.

In altri termini se – nel contesto di una operazione di MLBO – le azioni rivalutate vengono cedute ad una holding detenuta da soggetti diversi dagli azionisti della società ceduta, i cedenti pongono in essere un disinvestimento che può beneficiare della rivalutazione delle partecipazioni; ma se invece la holding è posseduta dai soci superstiti non si realizza un disinvestimento effettivo da parte del socio ma solo un incasso “indiretto” delle riserve della società partecipata, operazione non rientrante fra quelle che possono beneficiare degli effetti della rivalutazione delle partecipazioni.

La risposta 341 chiarisce, in proposito, che la descritta riorganizzazione, per escludere l’esistenza di una fattispecie di abuso del diritto, deve superare un vaglio di “non marginalità” delle ragioni extrafiscali dell’operazione. Ragioni che si ritiene sussistano solo quando le operazioni rappresentate non sarebbero state poste in essere in assenza di tali ragioni. Nel caso di specie, la risposta conclude che nella sequenza delle operazioni rappresentate non si ravvede altro “vantaggio” se non quello rappresentato dal risparmio fiscale in capo ai soci persone fisiche che cedono le partecipazioni previamente rivalutate.

Al di là del caso di specie, la risposta conferma un principio di fondamentale importanza nell’interpretazione dell’articolo 10-bis della legge 212 del 2000; cioè che l’onere di giustificare le valide ragioni economiche extrafiscali dell’operazione, ai sensi del comma 3, per dare prova della sua “sostanza economica” (uno dei mezzi per dare prova della sua “sostanza economica” ai sensi del comma 1 e non un “tertium genus” rispetto al concetto di sostanza economica (Assonime, circolare 27 del 2018, pag. 31) sorge solo quando l’operazione si presti a produrre un “vantaggio tributario indebito”, ossia in contrasto con i principi dell’ordinamento o con la ratio della norma applicata.

Leverage cash out quando la dismissione non è effettiva

Altro caso particolare affrontato dall’Amministrazione finanziaria è quello descritto nel principio di diritto 20 del 2019. Riguarda una ipotesi in cui la holding acquirente non è costituita solo da uno o più dei soci “superstiti” della target, ma anche da terzi (nel caso, dai figli del socio superstite) che ne hanno il controllo; ma il socio superstite mantiene tali poteri nella target da far dubitare che abbia posto in essere un effettivo disinvestimento. Da ciò la conclusione che l’operazione sia essenzialmente finalizzata al conseguimento del vantaggio fiscale indebito a favore del socio superstite, consistente nell’utilizzo della rivalutazione – la cui ratio è di agevolare la circolazione delle partecipazioni - per realizzare l’obiettivo, non contemplato dalla norma agevolativa, di incassare gli utili della società target in parziale franchigia d’imposta.

In pratica, nell’ipotesi di cui al principio di diritto 20 del 2019, la cessione delle partecipazioni alla holding seguita dalla fusione con indebitamento viene riqualificata in una distribuzione di dividendi (leverage cash out); nell’ipotesi di cui alla risposta 341 del 2019, invece, viene riqualificata in una sorta di recesso tipico previamente concordato con gli altri soci.

Questo giudizio appare forse eccessivamente severo. La ratio della legge di rivalutazione è, come afferma lo stesso principio di diritto, agevolare la circolazione delle partecipazioni; partecipazioni che possono essere o meno dotate o prive di particolari diritti. Tanto è vero che l’imposta sostitutiva viene calcolata sul valore della frazione di patrimonio netto della società, di spettanza del socio, prescindendo dalle caratteristiche del titolo.

Né, dalla descrizione del fatto, pare doversi desumere che la cessione sia finalizzata ad attuare una mera intestazione fiduciaria. Non sempre, in casi di questo tipo, dovrebbe pertanto presumersi l’assenza di sostanza economica.

Acquisto di azioni proprie e recesso tipico

Altro caso in cui, sempre più di frequente, viene contestata la dissimulazione della distribuzione di un dividendo è quello dell’acquisto di azioni proprie da parte della società.

È pacifico che quando l’acquisto di azioni proprie sia preordinato al loro annullamento ci si trovi in un caso recesso, riscatto o riduzione di capitale esuberante suscettibile di generare redditi di capitale ai sensi dell’articolo 47, comma 7 del Testo unico. Ma spesso gli uffici estendono l’applicazione della norma ai casi in cui le azioni acquistate non vengono annullate (caso esaminato dalla commissione provinciale di Padova nella sentenza n. 48 del 22 febbraio 2019) o vengono annullate in un momento successivo per vicende scollegate rispetto all’acquisto (caso esaminato dalla Commissione Provinciale di Napoli nella sentenza n. 6551 del 13 marzo 2014).

In questi casi, come emerge indirettamente dalla giurisprudenza citata, la riqualificazione non dovrebbe avvenire “in automatico”, ma solo quando, dagli atti sociali, risulti che l’intento della società è, in realtà, quello di distribuire riserve e non invece quello di investire temporaneamente nelle proprie azioni.

Gli effetti della riqualificazione

Nei casi in cui venga contestata la violazione della ratio delle norme agevolative sulla rivalutazione delle partecipazioni, deve essere risolta la questione di come rideterminare il reddito imponibile del cedente. Il corrispettivo di cessione, infatti, comprende, di norma, non solo la quota di patrimonio netto della società rappresentato dalle azioni cedute, ma anche un ulteriore componente che rappresenta le plusvalenze inespresse (relative ai beni aziendali o all’avviamento).

Nel momento in cui si presume che il corrispettivo percepito costituisca reddito di capitale e non reddito diverso, si deve stabilire quando si verifica il disconoscimento della rivalutazione e se il disconoscimento riguardi l’intera rivalutazione o, come sembrerebbe più logico, solo quella corrispondente alla quota di riserve di utili presenti nel patrimonio netto della società al momento della cessione della partecipazione oggetto di rivalutazione.

Alla prima domanda risponde il principio di diritto 20 del 2019: il vantaggio fiscale indebito non risulterà effettivamente conseguito fintanto che non sia incassato il corrispettivo della cessione.

Per quanto riguarda la seconda domanda, l’approccio più corretto sembra essere quello di limitare l’entità della “riqualificazione” all’utilizzo delle riserve pregresse in quanto – come osserva l’Assonime nella circolare 21 del 2017, nota 177 – le aspettative di utili futuri costituiscono tipicamente una componente dei capital gains per la quale non vi sarebbe alcun contrasto con la ratio della disciplina della rivalutazione.

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