Controlli e liti

Redditi esteri tassati in parte: Fisco italiano penalizzante

Il credito su imposte pagate oltreconfine non copre le somme già versate

Adobe Stock

di Giorgio Gavelli e Pietro Vitale

Il principio di diritto 15/2019 dell’agenzia delle Entrate offre la possibilità di rimarcare quanto l’articolo 165, comma 10, del Tuir sia penalizzante in determinate situazioni. In certi casi, infatti, l’imposta estera versata è persa per sempre, a fronte di redditi parzialmente tassati quali dividendi e redditi di lavoro dipendente esteri.

Ad oggi, infatti, il credito per imposte pagate definitivamente all’estero si detrae dall’imposta netta e nei limiti della quota d’imposta lorda italiana afferente alla sola parte del reddito estero che ha concorso a formare il reddito complessivo al netto delle perdite pregresse (cosiddetto «calcolo della capienza con l’imposta lorda italiana»). Sicché, ipotizzando che vi sia un solo dividendo che concorra per il 5% al reddito complessivo, tale rapporto sarebbe pari al 100% (5/5) e l’intera imposta lorda italiana (1,2) sarebbe in prima battuta interamente abbattibile con l’imposta estera. Lo stesso accadrebbe nel caso di un reddito di lavoro dipendente prestato all’estero in distacco in maniera continuativa e tassato in base al reddito convenzionale ex articolo 51, comma 8-bis, Tuir (risoluzione 48/E/2013).

Ciò detto, l’imposta definitivamente pagata all’estero dal 2006 soggiace, per norma interna, a una clausola di ragguaglio sulla cui base l’imposta estera assume dignità con la stessa percentuale di concorso al reddito tassabile in Italia (5% nel caso del dividendo o rapporto tra reddito di lavoro dipendente tassato su base convenzionale italiana e reddito di lavoro dipendente determinato con norme italiane senza tenere conto del comma 8-bis). Per cui, basta fare un esempio per capirne l’applicazione: se all’estero un dipendente “sotto” tassazione convenzionale paga 30 di imposte estere a fronte di un reddito effettivamente corrispostogli per 100, ma tassato in Italia solo per 60, allora il 40% dell’imposta estera (12) è persa per sempre senza che la stessa possa neanche godere del meccanismo di riporto negli otto anni all’indietro e poi in avanti (articolo 165, comma 6). Idem, con le debite proporzioni, per i dividendi.

L’amministrazione finanziaria, sin dalla circolare 33/1984, ha sempre sostenuto la clausola di ragguaglio, poi confermata dall’introduzione del comma 10 all’articolo 165 (circolare 9/E/2015). Da allora l’unica possibilità per non subire la falcidia della imposta estera è quella di cercare di applicare la convenzione contro le doppie imposizioni sul reddito vigente tra l’Italia e lo Stato della fonte del dividendo/stipendio. Infatti, in alcune convenzioni non si prevede un ragguaglio dell’imposta estera alla percentuale di concorso al reddito italiano del reddito estero.

In altre convenzioni, tuttavia, il ragguaglio è previsto e scatta la penalizzazione. Una tale clausola nelle convenzioni non serve a proteggere (dal Fisco estero) i residenti italiani bensì a farli “punire” dal fisco italiano. Molte di queste convenzioni sono in gran parte con Paesi ex black list, ma ora molti di essi sono diventati collaborativi con il Fisco italiano.

Ora, lo scopo delle convenzioni deve essere da un lato quello di proteggere (invocando la cosiddetta treaty protection) i propri residenti, quando producono redditi all’estero e, dall’altro, quello di aggredire (seppur sulla base di criteri di reciprocità) i non residenti quando vengono a produrre redditi in Italia.

Inserire una clausola di ragguaglio nelle convenzioni non risponde a nessuna di queste logiche e sembra quasi un accanimento verso i contribuenti italiani. Tra l’altro, dalla riforma Tremonti ad oggi, le norme in tema di Cfc si sono affinate e, pertanto, è ad esse che spetta il compito di evitare la delocalizzazione del reddito quando tutte le altre norme (ad esempio quelle sul transfer pricing) dovessero fallire.

A ciò si aggiunga che dalla lettura del commentario all’articolo 23A e 23B del modello di convenzione Ocse, si evince chiaramente che tra i due metodi per limitare la doppia imposizione proposti a livello Ocse (esenzione e credito di imposta), quello scelto dall’Italia (ordinary credit, rappresentato dall’articolo 165, comma 1) è già di per sé il metodo più penalizzante per il contribuente. In tale ottica il comma 10 dell’articolo 165 sembra oltremodo punitivo.

Questi ragionamenti, da un lato dovrebbero portare facilmente a disapplicare il comma 10 in presenza di convenzioni senza clausola di ragguaglio (per le altre Convenzioni vi è sempre la possibilità di invocare il divieto di doppia imposizione giuridica che tale comma 10 comporta), e dall’altro, oltre a spingere nel non far proseguire con l’inserimento di tale clausola di ragguaglio nelle rimanenti convenzioni, dovrebbero condurre verso un’abrogazione del citato comma 10.

Si potrebbe, forse, prevedere che l’eccedenza di imposta estera (ad esempio 8,8 nel caso di un dividendo soggetto al 10% di ritenuta estera) rispetto all’imposta lorda italiana (cioè 1,2) non sia riportabile negli otto anni (articolo 165, comma 6).

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©