Imposte

Con la riforma dell’Iva un’occasione per superare le incertezze applicative

Presupposti dell’imposta da rendere più aderenti alla normativa della Ue

di Livia Salvini

Il primo punto della delega per la revisione dell’Iva (articolo 7, comma 1, lettera a, dell’atto Camera 1038) prevede di «ridefinire i presupposti dell’imposta al fine di renderli più aderenti alla normativa dell’Unione europea». Si tratta di un obiettivo giusto e assai ambizioso.

Obiettivo giusto, perché le definizioni dei «presupposti» nel decreto Iva sono sensibilmente diversi da quelle unionali, sia sotto il profilo oggettivo che sotto quello soggettivo (nonché per quanto attiene alcuni aspetti della territorialità). E se è ben vero che esse resistono invariate da cinquant’anni, non è escluso che possano essere presto oggetto di pronunce della Cgue, la quale fin dagli anni ’90 dello scorso secolo ammonisce che la nozione di cessione di bene non si riferisce al trasferimento della proprietà previsto dalle norme nazionali. In ogni caso, la radicale distonia di queste definizioni rispetto alla direttiva è origine di incertezze e complicazioni applicative.

Il presupposto oggettivo

La relazione illustrativa al Ddl delega prende appunto ad esempio il presupposto oggettivo costituito dalle cessioni di beni, che nel nostro decreto Iva (articolo 2) sono definite come «atti a titolo oneroso che importano trasferimento della proprietà» di «beni di ogni genere», mentre nella direttiva (articolo 14) sono definite come «trasferimento del potere di disporre di un bene materiale come proprietario». Con la conseguenza, tra l’altro, che anche alcune tipologie di contratti di leasing danno luogo a cessioni (Cgue C-164/16), mentre sono considerate in Italia prestazioni di servizi. Questa diversa definizione delle cessioni di beni si riflette anche, per differenza, sulle prestazioni di servizi, che nella direttiva (articolo 24) sono definite in modo residuale come «ogni operazione che non costituisce una cessioni di beni» e da noi come prestazioni dipendenti da «obbligazioni di fare, di non fare e di permettere» (articolo 3).

Il presupposto soggettivo

Ma anche sotto il profilo soggettivo la difformità è palese. Basti pensare che il soggetto passivo è definito dalla direttiva come «chiunque esercita, in modo indipendente … un’attività economica» (articolo 9) ricomprendendo così in un’unica formula sia le attività di impresa che di arti e professioni che in Italia sono separatamente definite con ampio rinvio a nozioni civilistiche. Ma, soprattutto, non esiste nella direttiva la presunzione assoluta di esercizio dell’impresa per le attività delle società commerciali prevista dal nostro decreto (articolo 4). Presunzione la cui esistenza ha costretto il legislatore, nel 1997, a creare la tipologia delle attività che si considerano non commerciali anche se esercitate da società di capitali (possesso statico di partecipazioni, di immobili, eccetera) per escluderle tortuosamente dall’applicazione dell’imposta. E che ha anche creato una distonia con il diritto di detrazione, la cui esistenza invece richiede la effettività dell’esercizio dell’impresa secondo l’icastica formula della direttiva per la quale la detrazione spetta «nella misura in cui» i beni e servizi acquistati sono impiegati ai fini di operazioni soggette ad imposta.

Valorizzare il concetto sostanziale

L’obiettivo della delega è anche, però, assai ambizioso. «Valorizzare il concetto economico sostanziale rispetto a quello giuridico proprio del nostro ordinamento», come puntualizza la relazione illustrativa, significa riscrivere il Dpr 633/1972 dalle fondamenta. Ed infatti, esso è connotato dalla pedissequa aderenza alle nostre categorie giuridico formali, con continui rimandi al Codice civile anche e soprattutto nella definizione dei presupposti. In questo siamo assolutamente isolati nell’ambito dell’Ue: Francia, Germania, Spagna, Paesi dalla solida tradizione civilistica, tra gli altri, adottano definizioni sostanziali, aderenti a quelle della direttiva.

L’impostazione

La nostra impostazione è dovuta ad almeno due fattori diretti, oltre che al background culturale dell’epoca. Il primo era l’esigenza di non discostarsi troppo dall’impostazione dell’Ige, come emerge chiaramente dalle ampie consultazioni e discussioni preliminari alla redazione del decreto. Il secondo era quello di uniformare il più possibile le definizioni Iva con quelle delle imposte sul reddito, come emerge plasticamente dalla definizione di reddito/esercizio di impresa.

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