Il CommentoControlli e liti

Sinteticità dei ricorsi non giustificata nei giudizi in Ctp e Ctr

di Gaetano Ragucci

Amareggia, ma non stupisce, la notizia data da «Il Sole 24Ore» della sentenza Ctr del Veneto che ha dichiarato inammissibile un ricorso di appello giudicato troppo lungo, perché vi si esprime il carattere dei tempi (si veda l’articolo «Inammissibile l’appello con troppe pagine e documenti allegati»).

Nel giudizio tributario, l’esigenza di sinteticità del ricorso, conseguita attraverso un’opportuna selezione degli elementi di fatto e diritto pertinenti, la cui mancanza può produrre l’inammissibilità del gravame, si giustifica nel ricorso per cassazione (Cassazione 15180/2010), per la natura del giudizio che vi si compie, ma non nei gradi di merito, in cui vige il principio di non contestazione, e a un’istruttoria primaria condotta in sede amministrativa con metodo inquisitorio, e larghezza di mezzi, segue una verifica giudiziale residuale ed eventuale, retta dal principio dispositivo e su base documentale, nella quale sul contribuente gravano rilevantissimi oneri probatori, il cui inadempimento lo espone alla soccombenza. Questi caratteri si oppongono all’estensione della giurisprudenza maturata nel processo civile sulla linea tracciata dalla sentenza Cassazione 21297/2016, in quanto non compatibile con il rito (articolo 1, comma 2, del Dlgs 546/1992). La stessa esigenza di sinteticità è avvertita nel processo amministrativo, dove dal 2016 l’articolo 3, comma 2, del codice della giustizia prescrive che tutti gli atti del processo siano redatti in forma chiara e sintetica; lo stesso è previsto per il processo contabile dall’articolo 5, comma 2, del Dlgs 174/2016, ma per giungere a tanto ci sono volute regole espresse.

Allo stato, la mutuazione di tale precetto nel giudizio tributario di merito non pare giustificabile in base a motivi di efficienza, perché, in casi come quello sottoposto ai giudici veneti, i problemi posti da un giudizio complesso possono essere risolti attraverso un oculato esercizio dei poteri di direzione: come per ragioni di economia si può disporre la riunione dei processi, così per le stesse ragioni se ne può disporre la separazione (articolo 29, comma 3, del Dlgs 546/1992); l’onere che grava sul relatore può essere alleggerito fissando un’udienza per la trattazione di un solo ricorso; per l’acquisizione dei necessari elementi conoscitivi il Giudice si può avvalere di ausiliari (articolo 7); il Giudice può invitare le parti a limitare la discussione ai temi rilevanti. Oltre a ciò, nel decidere il ricorso, può redigere una sentenza «concisa» sullo svolgimento del processo, e «succinta» sui motivi di fatto e di diritto (articolo 36), in cui è libero di scegliere, tra le varie questioni di merito, quella che ritiene «più liquida» in assenza di un vincolo di subordinazione imposto dalle parti (articolo 276, comma 2, del Codice di procedura civile).

Al di là dalla fondatezza della decisione, che non è la sede per indagare, l’opzione per una pronuncia di inammissibilità del ricorso equivale all’abdicazione dall’esercizio di queste prerogative, ed è qui che il precedente veneto rivela il carattere dei tempi. Lasciato sullo sfondo il caso particolare, e ragionando dal punto di vista del bene comune, dietro all’efficienza, alla semplificazione, all’imperativo dello smaltimento dell’arretrato, e a tutti i problemi presenti nel dibattito su di una riforma che tarda a venire, si intravedono anche i temi della formazione e dello status dei giudici. Da questo punto di vista, il caso si presenta come un riflesso dei nodi della riforma della giustizia tributaria sui modi di esercizio della giurisdizione. Riflesso che, per chi nel processo svolge la funzione della difesa, è causa di disagio perché, se a sciogliere quei nodi non è il legislatore, prima o poi ci pensa il giudice, ma a spese delle parti.