Controlli e liti

La Consulta: sanzioni misurate alla gravità dell’evasione fiscale

Il contribuente che si mette in regola può vedersidimezzate le sanzioni. Mancano di «proporzionalità» le super-penali applicate in modo automatico

di Gianni Trovati

Le sanzioni del fisco devono essere «ragionevoli» e proporzionate alla gravità del comportamento del contribuente. Di conseguenza il dimezzamento delle penalità può intervenire anche quando il diretto interessato attenua o cancella del tutto le conseguenze dell’evasione iniziale, per esempio presentando le dichiarazioni mancanti o pagando il dovuto anche se in ritardo. Il taglio a metà delle sanzioni può essere deciso d’ufficio dall’amministrazione finanziaria o chiesto dal contribuente «ogni qualvolta sia stato articolato un motivo di impugnazione sulla debenza o sull'entità delle sanzioni irrogate e risultino allegate circostanze tali da consentirlo».

Con queste indicazioni la sentenza 46/2023 depositata il 17 marzo dalla Corte costituzionale e redatta da Luca Antonini introduce una forte ventata innovativa nella foresta pietrificata delle sanzioni tributarie. E conforta indirettamente l’indirizzo imboccato sul tema dalla delega fiscale approvata giovedì dal governo, che punta proprio a calibrare le sanzioni amministrative e penali sulla situazione specifica e sui comportamenti del contribuente per evitare di colpire allo stesso modo chi evade per dolo e chi non risponde puntualmente alle richieste del fisco perché non ci riesce.

Per capirlo è utile partire dai principi chiave su cui poggia la nuova pronuncia.

Sotto l’esame costituzionale finisce il decreto sulle penalità del fisco, il Dlgs 471/1997, che nel caso di omessa dichiarazione prevede «la sanzione amministrativa dal centoventi al duecentoquaranta per cento» delle imposte dovute (articolo 1, comma 1).

Un colpo del genere affibbiato anche a chi si adegua, pur con ritardo o in modo parziale, agli obblighi dichiarativi e di pagamento «non potrebbe superare di per sé il test di proporzionalità», scrive chiaro e tondo il giudice delle leggi. E aggiunge che il meccanismo inciamperebbe anche sul «sindacato di ragionevolezza», altro criterio cardine del vaglio costituzionale, perché «potrebbe effettivamente scoraggiare il pur tardivo adempimento».

A queste conclusioni la sentenza arriva esaminando il caso di una società che non aveva presentato le dichiarazioni sul consolidato fiscale per il 2014 e 2015, ma aveva puntualmente trasmesso la propria come del resto avevano fatto le società consolidate.

La conseguenza si è sostanziata in una sanzione da 1,3 milioni, pari al 120% dell’imposta accertata. La commissione tributaria di Bari, dove è nato il contenzioso finito sui tavoli della Consulta, precisa poi che «la società ricorrente ha dimostrato di avere pagato integralmente imposte dovute, interessi e sanzioni «ridotte», prima di ricevere gli avvisi di accertamento impugnati».

Così riassunto, il caso è un classico delle storie fiscali italiane, in cui il bastone sanzionatorio può calare anche quando il contribuente si è nel frattempo attivato per sanare la propria situazione.

Con il risultato, spiega con efficacia la sentenza, che sanzioni «strutturate per garantire un forte effetto deterrente al fine di evitare evasioni anche totali delle imposte, tendono a divenire draconiane quando colpiscono contribuenti che invece tale intento chiaramente non rivelano».

Per superare il tratto irragionevole di questo impianto senza arrivare alla tagliola dell’illegittimità, la Corte costruisce un’interpretazione «costituzionalmente orientata» del decreto legilativo sulle sanzioni amministrative, il 472 del 1997. All’articolo 7 si incontrano due commi, fin qui letti in modo rigidamente separato («atomistico», per dirla con la Corte): il primo (comma 1) spiega che la gravità della violazione, da cui dipende la misura della sanzione, dipende anche dalla «condotta» del contribuente, dalle sue iniziative per «l’eliminazione o l’attenuazione delle conseguenze» oltre che dalla sua personalità e alle condizioni economiche e sociali»; il secondo (comma 4), permette il taglio del 50% quando «concorrano circostanze che rendono manifesta la sproporzione tra l’entità del tributo cui la violazione si riferisce e la sanzione». 

La sentenza in pratica mette i due commi in correlazione fra loro, con una lettura più sistematica che apre di conseguenza al dimezzamento previsto dal comma 4 quando il contribuente si attiva per risolvere la situazione come descritto al comma 1.

La conseguenza pratica è che diventa possibile chiedere la riduzione delle sanzioni anche fuori dai casi in cui interviene il ravvedimento operoso, a patto naturalmente di riuscire a documentare le «circostanze» attenuanti. Quando queste sono pacifiche, la riduzione può essere praticata d’ufficio dall’amministrazione finanziaria.

Ma è la contemporaneità con l’avvio della riforma fiscale a misurare il peso dei riflessi politici della sentenza, che estende al terreno tributario quella promozione dei principi di proporzionalità delle sanzioni che un filone ormai ricco della giurisprudenza costituzionale ha già portato nel penale prima e nel campo amministrativo poi.

Perché la strategia descritta dall’articolo 18 della delega è ispirata dall’idea di un trattamento differenziato per la cosiddetta “evasione di necessità”, che nelle sanzioni penali si traduce nell’attribuzione di uno «specifico rilievo» alla «sopraggiunta impossibilità di far fronte al pagamento del tributo» e alle «definizioni sopraggiunte» nel contenzioso, e nel filone amministrativo vuole «migliorare la proporzionalità delle sanzioni tributarie». Esattamente come chiede la Corte costituzionale.

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