Controlli e liti

False fatture, prova da presunzioni per contestare i costi indeducibili

Per la Cgt Basilicata le fatture emesse avevano valore del tutto inconciliabile con il volume d’affari del fornitore, desunto dal sistema Serpico (Servizi per il contribuente)

Nella contestazione di indeducibilità dei costi, la prova della falsità delle fatture può derivare anche da presunzioni, purché dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, e l’onere di fornire tale prova spetta all’amministrazione finanziaria, mentre la parte è tenuta a dimostrare che le operazioni siano state realmente effettuate. È il principio espresso dalla sentenza 32/1/2023 della Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Basilicata, che ha ritenuto indeducibili i costi, sostenuti da un società di persone per prestazioni effettuate da un fornitore, in quanto ritenuto non idoneo, dal punto di vista tecnico, ad effettuarle. In particolare, per i giudici di secondo grado, le fatture emesse avevano valore del tutto inconciliabile con il volume d’affari del fornitore, desunto dal sistema Serpico (Servizi per il contribuente), oltre al fatto che lo stesso fornitore aveva dichiarato di non avere effettuato le prestazioni.

L’indirizzo della giuriusprudenza di legittimità

La decisione si pone nel solco tracciato dalla giurisprudenza di legittimità e di merito ormai consolidata (tra le altre Cassazione, ordinanza 21733/2021; n. 3218/2023; n. 2470/2023; Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia, n. 4128/2022) secondo cui, in caso di operazioni oggettivamente inesistenti, l’amministrazione finanziaria ha l’onere di provare che l’operazione non sia mai stata effettuata, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione; prova che può essere fornita anche mediante presunzioni semplici (è stata, ad esempio, ritenuta idonea la circostanza che il fornitore avesse reso una prestazione completamente diversa rispetto a quella dichiarata con la denuncia di inizio attività: si veda Cassazione, n. 29322/2018).

Dal lato del cessionario/committente è altrettanto consolidato il principio per cui è onere dello stesso dimostrare l’effettiva esistenza delle prestazioni contestate mediante una prova che vada oltre la regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, «poiché questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di fare apparire reale un’operazione fittizia» (Cassazione n. 3238/2023; n. 4826/2022; n. 9304/2022; n.11737/2022).

La riforma del processo tributario

Va osservato che, nel caso in esame, i giudici sembrano non aver tenuto conto del nuovo comma 5-bis dell’articolo 7 Dlgs 546/1992 (in vigore dal 16 settembre 2022), in materia di onere della prova nel giudizio tributario; già diverse Corti di merito, nel valutare casi analoghi, hanno annullato la pretesa fiscale perché ritenuta carente sotto il profilo probatorio (cfr. Cgt primo grado di Reggio Emilia n. 293/2022; Cgt secondo grado Emilia Romagna n. 90/2023; Cgt primo grado Siracusa n. 3856 e n. 3866/2022; Cgt primo grado Enna n. 1509/2022). Al riguardo, va tuttavia osservato che la Cassazione, con le ordinanze n. 31878 e n. 31880/2022, nel decidere due casi aventi ad oggetto operazioni soggettivamente inesistenti, ha sì confermato l’applicabilità della nuova norma anche ai giudizi in corso, salvo poi decidere in senso sfavorevole ai contribuenti, sul presupposto che la nuova norma «non stabilisce un onere probatorio diverso o più gravoso rispetto a quelli vigenti in materia, ma è coerente con le ulteriori modifiche legislative in tema di prova, che assegnano all’istruttoria dibattimentale un ruolo centrale».

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