Controlli e liti

Pretesa del Fisco sulle valute virtuali: la scelta di pagare e chiedere rimborso

La posizione dell’Agenzia porta dritto in commissione tributaria

di Edoardo Belli Contarini

Entro il mese di febbraio è possibile presentare la dichiarazione “tardiva” per il 2020 nei 90 giorni per regolarizzare i proventi da criptovalute, evitando le sanzioni per infedele dichiarazione, tenendo conto però anche del recente Dlgs 184/2021 intervenuto in materia. È ormai nota la soluzione “di comodo” dell’Agenzia, secondo cui le criptomonete sarebbero equiparabili alle «valute estere» ovvero alle «attività finanziarie estere», assicurandosi così il diritto a percepire l’imposta sostitutiva dell’Irpef del 26% e il monitoraggio fiscale sulle consistenze, da indicare sempre nel quadro RW, persino quando sono detenute in Italia tramite chiavi private, al di fuori del circuito degli intermediari finanziari (risposta a interpello 788/2021).

Tuttavia la dottrina, nel declinare sia pure con difficoltà una definizione giuridica – trattandosi di un asset digitale “ibrido” fungibile sia come di mezzo di pagamento, sia per finalità finanziarie, come previsto dall’articolo 1, comma 2, lettera qq) del Dlgs 231/2007 ai fini dell’antiriciclaggio – nega decisamente la riconducibilità delle criptocurrency sia alle valute, incluse quelle elettroniche, in virtù della rigida nozione del Tub n. 385/1993, sia agli «strumenti» e ai «prodotti finanziari», disciplinati in numero chiuso dal Tuf n. 58/1998.

In questa prospettiva, adesso, l’articolo 1, comma 1, lettera d) del Dlgs 184/2021, in vigore dal 14 dicembre, relativo «alla lotta contro le frodi e le falsificazioni di mezzi di pagamento diversi dai contanti», delinea una nozione di «valuta virtuale» analoga e più precisa di quella contemplata dalla normativa antiriciclaggio, che conferma definitivamente l’intassabilità dei proventi da cessioni a pronti.

Invero, sebbene la recente nozione di «valuta virtuale» operi «agli effetti della legge penale», in funzione delle modifiche al Codice penale e alla disciplina della responsabilità da reato delle società (Dlgs 231/2001), cionondimeno, nel solco del Dlgs 231/2007, sotto il profilo evolutivo e sistematico, si ha la riprova che nel silentio legis l’articolo 67, lettera c-ter), del Tuir in tema di valute estere non può estendersi per analogia alle criptomonete.

Invero, l’ultimo decreto, ricalcando la definizione già delineata ai fini dell’antiriciclaggio, la rafforza, per un verso, espungendo espressamente la criptovaluta dallo «status giuridico di valuta o denaro» e, per altro verso, precisando che trattasi di «strumento di pagamento diverso dai contanti» di tipo convenzionale, cioè «accettata da persone fisiche o giuridiche come mezzo di scambio», che circola nella blockchain, cioè viene «trasferita, memorizzata e scambiata elettronicamente». Tale moneta «non è legata a una valuta legalmente istituita», «non è emessa o garantita da una banca centrale»; pertanto, non è assimilabile alle «valute estere» e non può applicarsi l’articolo 67, lettera c-ter), del Tuir.

Dovrebbe essere finalmente chiaro che la matrice delle criptocurrency si esaurisce in un mezzo di scambio, in uno «strumento di pagamento convenzionale diverso dal contante» e quindi tali asset, per loro natura giuridica e immateriale, non sono assimilabili neppure agli «strumenti» e ai «prodotti finanziari» né tantomeno a un’«attività finanziaria».

La valuta virtuale, in quanto – ora ribadito ex lege – «rappresentazione di valore digitale» può costituire l’«oggetto», il «sottostante» di un’operazione finanziaria, amministrata per conto proprio o conferendo un mandato di gestione ad altri operatori, come accade per l’oro, le monete antiche, le opere d’arte, i diamanti e i francobolli; ma l’apprezzamento nel tempo delle criptovalute non rappresenta un rendimento finanziario imponibile, almeno fino a che l’incremento maturato non venga incassato e soprattutto ne sia prevista la riconducibilità in una delle categorie tassative di reddito imponibile dell’articolo 67 del Tuir, in presenza dei relativi presupposti.

In conclusione, risulta confermato che (anche) nell’ambito delle valute, sia virtuali sia «fiat», nonché dei «prodotti finanziari» in genere, non si possono estendere in via interpretativa le norme del Tub, Tuf, Dlgs 231/2007, Codice penale e neppure quelle del Tuir, tutte improntate al criterio di legalità e tassatività. L’equazione erariale valuta estera/valuta virtuale è in rotta di collisione con: i) la gerarchia delle fonti del diritto ex articolo 1 delle disposizioni preliminari al Codice civile;, ii) gli articoli 23 della Costituzione, 1 e 3 dello Statuto del contribuente (legge 212/2000), recanti la riserva di legge anche in ambito tributario; iii) gli articoli 1, 6 e 67 del Tuir, norme di chiusura del sistema Irpef.

Si aggiunga che l’approccio dell’Agenzia potrebbe implicare una reazione punitiva, anche penale, di notevole impatto per il contribuente, in contrasto con il principio di legalità delle sanzioni stabilito dagli articoli 25 della Costituzione, 1 e 2 del Codice penale, nonché dall’articolo 3 del Dlgs 472/1997. Dunque, delle due l’una: o, a ragion veduta, si omettono gli adempimenti “imposti” dalla prassi, con probabile contestazione da parte dell’ufficio, oppure ci si adegua, con dichiarazione tardiva nei 90 giorni da inviare entro febbraio; poi, nel termine di decadenza di 48 mesi, si presenta istanza di rimborso per ripetere l’imposta sostitutiva dell’Irpef assolta indebitamente; in entrambi i casi però, si finisce in commissione tributaria.

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