Controlli e liti

Bitcoin, plusvalenze da tassare per i privati se c’è finalità speculativa

Secondo la Ctr Veneto le operazioni non sono paragonabili a quelle svolte da un professionista autorizzato. Bocciata la richiesta di rimborso sulle imposte versate

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di Dario Aquaro

Le plusvalenze realizzate dai privati con la compravendita di bitcoin non generano redditi imponibili solo se manca la finalità speculativa. Altrimenti si applica la “normale” imposta sostitutiva del 26% prevista dal Tuir. Per questo motivo la Ctr Veneto (sentenza 1505/2/2021 del 6 dicembre scorso) – accogliendo l’appello delle Entrate – ha dato torto a un contribuente che chiedeva il rimborso delle imposte pagate in un biennio.

Nel quadro RT delle dichiarazioni dei redditi relative al 2014 e 2015, il soggetto aveva infatti riportato le plusvalenze derivanti dalle operazioni di acquisto/vendita di bitcoin, versando la sostituiva del 26% prevista per i redditi diversi ex articolo 67, comma 1, lettera c-ter e articolo 68, commi 5 e 6, del Tuir.

Ma dopo aver letto la risoluzione 72/E del 2 settembre 2016, e ritenendo che le operazioni di trading sui bitcoin non generassero capital gain, aveva presentato due istanze per chiedere il rimborso degli importi versati. E di fronte al silenzio rifiuto del Fisco aveva fatto ricorso in Ctp, vincendo la causa.

L’Agenzia si è quindi rivolta alla Commissione regionale, ribadendo la legittimità del rifiuto e sostenendo che il contribuente aveva mal interpretato il contenuto della risoluzione. Il provvedimento, infatti, prendeva spunto da un interpello formulato da una società che intendeva eseguire operazioni di compravendita di bitcoin per conto dei clienti e chiedeva quale fosse il corretto trattamento fiscale.

I chiarimenti del Fisco

In quella risoluzione 72/E/16 le Entrate avevano fatto riferimento alla Corte di Giustizia Ue (causa C-264/14), secondo cui quel tipo di operazioni rientrano tra quelle «relative a divise banconote e monete con valore liberatorio», di cui all’articolo 135, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2006/112/Ce, svolte in modo professionale e abituale, e costituiscono un’attività rilevante ai fini Iva, Ires e Irap.

Applicando queste indicazioni, l’Agenzia aveva quindi sostenuto che l’attività della società in questione – remunerata attraverso commissioni – dovesse essere considerata ai fini Iva quale prestazione di servizi esenti (articolo 10, comma 1, n.3, Dpr 633/72); mentre ai fini della tassazione diretta si dovessero assoggettare a imposizione i componenti di reddito derivanti dall’intermediazione effettuata, al netto dei relativi costi.

Quanto alla tassazione Irpef dei clienti della società (persone fisiche che detengono bitcoin al di fuori dell’attività d’impresa), nella risoluzione veniva precisato che le compravendite di valuta non generano redditi imponibili se manca la finalità speculativa: quindi la società non era tenuta ad alcun adempimento come sostituto d’imposta.

Le conclusioni dei giudici

Ma nel caso all’esame della Ctr veneta non si è in presenza di una società, né di un’attività di compravendita di valuta (bitcoin) svolta da un professionista/operatore finanziario autorizzato e con partita Iva. Si tratta invece di un cittadino che ha effettuato in due anni compravendite di bitcoin generando delle plusvalenze. Plusvalenze che, in base all’articolo 68, commi 5 e 6, del Tuir, concorrono a formare il reddito imponibile e vanno tassate applicando l’aliquota del 26 per cento .

Le conclusioni dei giudici tributari – che hanno accolto l’appello dell’Agenzia – sono corroborate da un altro dato: il contribuente, come dichiarato nei quadri RT delle dichiarazioni relative agli anni 2014 e 2015, ha acquistato bitcoin per 138.454 euro, rivendendoli a 148.933 euro. Operazioni che, se «da una parte superano la soglia di valore e temporale (di 51.645,69 euro per almeno sette giorni lavorativi continui nel periodo d’imposta)», dall’altra, «per la loro rilevanza economica, non possono non denotare l’esistenza di un’evidente finalità speculativa».

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