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Detrazione Iva, la rotta della valutazione qualitativa sull’afferenza

La detrazione è concessa se il componente negativo porta a un’operazione tassata, anche se non vi è direttamente correlato. Confronto aperto tra giurisprudenza comunitaria e quella di Cassazione

di Raffaele Rizzardi

Il diritto di detrazione è l’elemento che qualifica l’imposta sul valore aggiunto.
La nostra legge, su questo punto ancora ferma alle direttive del 1967 e del 1977 (seconda e sesta direttiva), qualifica l’imposta all’articolo 1 come un tributo sulla cifra d’affari, relegando il diritto di detrazione verso la fine del titolo I.

La direttiva vigente, 2006/112/Ce, adotta invece un approccio più coerente con il principio di neutralità del tributo, affermando al capoverso del paragrafo 2 dell’articolo 1, che «a ciascuna operazione, l’Iva, calcolata sul prezzo del bene o del servizio all’aliquota applicabile al bene o servizio in questione, è esigibile previa detrazione dell’ammontare dell’imposta che ha gravato direttamente sul costo dei diversi elementi costitutivi del prezzo».

Afferenza e inerenza

Fatta questa premessa dobbiamo chiederci come mai varie disposizioni della nostra norma pongono la condizione dell’«afferenza» – in particolare nell’articolo 19 relativo alla detrazione – e invece non utilizzano il termine più diffuso in materia di imposte dirette, quello di «inerenza».

Passiamo un attimo al Tuir, ove è pacifico che l’inerenza sia un principio trasversale, che guida la deducibilità di qualunque componente negativo, così che si resta stupiti nel constatare che il relativo articolo 61 consente agli imprenditori individuali e alle società di persone di dedurre gli interessi passivi, a condizione che siano «inerenti all’esercizio dell’impresa», come se fosse immaginabile di poter dedurre interessi passivi inerenti alla sfera personale del titolare. «Afferenza» deriva etimologicamente da adferens, participio presente di adferre – portare, recare: la detrazione è concessa se quel componente negativo “porta” a una operazione tassata, anche se non vi è direttamente correlato.

Si usa anche dire che la detrazione deve essere vista in senso teleologico, cioè finalistico. Solo così si spiegano le condivisibili affermazioni della storica e fondamentale circolare 328 del 24 dicembre 1997, per consentire la detrazione degli acquisti relativi ai frigoriferi o alle macchine del caffè, concessi in comodato d’uso gratuito – operazione fuori campo Iva – agli esercenti che acquisteranno i gelati o il caffè – operazioni imponibili.

L’afferenza deve essere comunque vista in funzione dell’attività del soggetto d’imposta e non di singole specifiche operazioni. Così la nota sentenza della Corte di giustizia del 29 ottobre 2009, nella causa C-29/08 – che riconosce la detraibilità dell’imposta sulla consulenza per la vendita di partecipazioni – operazione esente – se sussiste un nesso diretto e immediato tra le spese collegate alle prestazioni a monte e il complesso delle attività economiche del soggetto d’imposta.

Un ulteriore corollario riguarda la detraibilità di spese afferenti operazioni non andate a buon fine, come nella sentenza del 17 ottobre 2018, causa C-249/17. Si trattava del caso di Ryanair che nel 2006 aveva lanciato un’Opa, poi fallita, su Aer Lingus.

Il fisco aveva recuperato la detrazione dell’Iva sulle spese sostenute per questa operazione, ma la Corte accoglie la tesi del contribuente, ponendo come unica condizione che «tali spese siano motivate esclusivamente dall’attività economica prevista.

Abbiamo sottolineato il termine «prevista», perché ci porta al tema che sarà trattato in seguito: è detraibile l’Iva su una spesa che ha l’aria di essere eccessiva?

Ecco il cuore del problema: il sostenimento di una spesa finalizzata a un determinato aspetto della vita aziendale viene deciso ex ante, formulando un pronostico sul risultato, che ci si aspetta sia positivo.

Il verificatore fiscale arriva ex post, e dispone dei dati a consuntivo, cadendo in quello che riteniamo sia un vero e proprio errore logico, di valutare il merito di un onere sostenuto in passato, quando i giochi sono già conclusi ed è facile dire se, con il senno di poi, quella spesa sarebbe stata o meno sostenuta. È ovvio che se Ryanair avesse avuto la certezza dell’esito negativo dell’Opa non avrebbe sostenuto costi che hanno gravato sul suo conto economico, senza un incremento dei ricavi.

Il giudizio quantitativo – la cosiddetta «antieconomicità» – per contestare la detrazione dell’Iva non è possibile per lo specifico disposto della direttiva antielusione, 2006/69/Ce, trasfusa nella vigente 2006/112/Ce, il cui contenuto precettivo si trova all’articolo 13, comma 3 della nostra legge. E può essere sintetizzato nel senso che il corrispettivo va rettificato al valore normale a due condizioni:

1. che le operazioni siano intercorse tra parti correlate;

2. la sovra o sottofatturazione comporti un vantaggio in termini di detrazione, cioè se una delle parti ha limitazioni alla detrazione (anche per effetto di forfetizzazioni).

La linea della Corte di giustizia

La Corte di giustizia ha più volte ribadito questo principio, come nella sentenza del 26 aprile 2021, nelle cause riunite C-621/10 e C-129/11 – Balkan and Sea Properties e altri: la rettifica del corrispettivo non è ammessa fuori da questi casi, in particolare se il soggetto passivo beneficia del diritto di detrarre interamente l’imposta sul valore aggiunto.

Resta indetraibile l’Iva in un contesto di frode. La Corte di giustizia, nella sentenza dell’11 novembre 2021, causa C-281/20: deve essere negato l’esercizio del diritto a detrazione dell’Iva relativa all’acquisto di beni, conseguente alla rilevazione in reverse charge, se il soggetto passivo ha consapevolmente indicato un fornitore fittizio se, tenuto conto delle circostanze di fatto e degli elementi forniti da tale soggetto passivo, mancano i dati necessari per verificare che il vero fornitore aveva la qualità di soggetto passivo o se è sufficientemente dimostrato che tale soggetto passivo ha commesso un’evasione dell’Iva o sapeva o avrebbe dovuto sapere che l’operazione invocata a fondamento del diritto a detrazione si iscriveva in una simile evasione.

Le posizioni della Cassazione

Passiamo alla nostra Corte di cassazione che in alcune pronunce sembra aderire a questi principi.

Nell’ordinanza 2867 del 31 gennaio 2019, che richiama precedenti del 2018, afferma infatti che in tema di Iva è richiesto un «giudizio di carattere qualitativo, che prescinde in sé da valutazioni di tipo utilitaristico o quantitativo».

Fermo restando che in situazioni macroscopiche l’eccessività di un onere può provarne la non riferibilità all’attività del soggetto di imposta. Non si può certo contestare la conclusione contraria al professionista che, dalla narrativa della causa, non si era limitato ad adattare un immobile di terzi, preso in locazione, alle esigenze della sua attività, ma l’aveva ristrutturato radicalmente. La macroscopica antieconomicità rileva quale indizio dell’assenza di connessione tra il costo e l’attività di chi lo sostiene. Fin qui siamo in linea con le regole generali del tributo, ma dobbiamo segnalare una opinabile presa di posizione della Suprema Corte, alla quale stanno prestando acquiescenza le Corti di merito.

Il caso trattato dalla Cassazione, con la sentenza 8716 del 30 marzo 2021, riguarda una società che riceve servizi dall’estero infragruppo per 5 milioni di euro; applica in reverse charge l’Iva su questo corrispettivo, che porta in detrazione.

L’Ufficio ritiene inerente (anche ai fini delle imposte dirette) un corrispettivo di 887.440 euro, considerando «dovuta» l’Iva a debito su 5 milioni, per l’articolo 21, comma 7 legge Iva (equivalente all’articolo 203 della direttiva), e detraibile solo quella sul corrispettivo congruo, mentre per la differenza mancherebbero i «requisiti sostanziali».

L’aspetto singolare – si fa per dire – è che il contribuente oltre a perdere la detrazione dell’Iva viene sanzionato nella misura del 90% dell’imposta.

Un’operazione inesistente in reverse charge (articolo 6, comma 9-bis3 del Dlgs 471/1997) non avrebbe comportato un onere di Iva («in sede di accertamento devono essere espunti sia il debito computato da tale soggetto nelle liquidazioni dell’imposta che la detrazione operata nelle liquidazioni anzidette») e sarebbe stata punita con una sanzione dal 5% al 10% dell’imponibile.

Questa eccezione non era stata proposta nel giudizio di Cassazione, ma è stata poi formulata in un appello presso una Commissione tributaria regionale. Risposta: la disposizione che prevede una sanzione ridotta non si riferisce a operazioni imponibili ed esistenti, come nel caso di specie, ed è quindi giusto che la penalità sia sproporzionatamente più elevata rispetto a un caso di frode.

Quanto alla rilevanza dell’articolo 21, comma 7, legge Iva, che dichiara comunque dovuta l’imposta indicata in fattura, occorre evidenziare che quando la detrazione è stata recuperata, come nel caso di specie, non sussiste alcun danno erariale e quindi l’imposta dovuta va abbattuta nella misura dell’imposta non detratta. Così la Corte di giustizia su un caso italiano con la sentenza dell’8 maggio 2019, nella causa C-712/17.

Questo articolo fa parte del Modulo24 Iva del Gruppo 24 Ore.

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