Imposte

Cessione a terzi nei passive income

Per le Entrate non basta il transfer pricing per le operazioni extra gruppo

di Alessandro Germani

Nella bozza di circolare in consultazione fino a domani 6 agosto l’Agenzia tratta dei passive income pervenendo ad alcune conclusioni che non convincono appieno laddove la Cfc si interseca con il transfer pricing. La disciplina Cfc richiede due condizioni congiunte (articolo 167, comma 4, del Tuir):

O una tassazione effettiva del soggetto non residente inferiore alla metà di quella a cui sarebbe stato soggetto se residente in Italia;

O la circostanza per cui oltre un terzo dei proventi realizzati rientri nella categoria dei cosiddetti passive income.

In relazione a questi ultimi giova soffermarsi sulle cessioni di beni (novità della norma rispetto al passato) e le prestazioni di servizi infragruppo con valore economico scarso o nullo nei confronti di parti correlate, ai sensi dei punti 6 e 7 del comma 4. In ambedue i casi la norma si riferisce, come controparte della Cfc, ai soggetti che, direttamente o indirettamente, controllano il soggetto controllato non residente, ne sono controllati o sono controllati dallo stesso soggetto che controlla il soggetto non residente. Ora non c’è dubbio che essa si basa sull’articolo 7, comma 2 lettera a), numero VI, della direttiva Ue 2016/1164, che a sua volta si fonda sul rapporto Ocse, Action 3, paragrafo 78, sulle invoicing companies. Queste sono le società che svolgono attività prevalentemente amministrative nell’ambito di beni e servizi, senza apportare granché.

Fin qui tutto chiaro. Sennonché poi l’Agenzia interpreta questa disposizione nel senso che essa non si debba applicare soltanto ai casi di acquisto e rivendita di beni da entità del gruppo (che è proprio il caso che si vuole colpire se patologico) ma anche laddove una delle due fasi – di acquisto o di vendita – sia effettuata con controparti terze. Stesso discorso dicasi per le prestazioni di servizi, sia nel caso in cui entrambe le prestazioni siano svolte a livello intercompany, sia nel caso in cui si acquisti un servizio dal gruppo per rivenderlo a terzi. La tesi non convince per due ordini di motivi. In primis perché la logica delle cartiere che si vorrebbe colpire nella disciplina Cfc è ancorata al fatto che le cessioni o le prestazioni vengano sempre effettuate con imprese associate. Perché d’altronde se una delle due fasi viene effettuata con soggetti terzi, allora sarà solo l’altra fase che dovrà essere monitorata, attraverso quegli strumenti ordinari già previsti nell’ordinamento dalla disciplina del transfer pricing (articolo 110, comma 7, del Tuir). Inoltre nel 2020 vi era stato un interpello non pubblicato, ma recensito dalla stampa, in base al quale la Direzione centrale ha dato ragione al contribuente circa l’applicazione della disciplina Cfc alle sole transazioni da e verso entità associate. Motivo per cui l’impostazione della bozza di circolare appare un dietrofront non motivato.

In relazione ai servizi la norma fa esplicito riferimento ai quelli con basso valore aggiunto di cui all’articolo 7 del Dm 14 maggio 2018. Qui registriamo un’apertura per cui sembrerebbe che tale nozione possa considerarsi compatibile anche nel caso delle cessioni di beni. Andrebbe compreso se ciò valga anche ai fini specifici del transfer pricing. Per l’individuazione dei servizi a basso valore aggiunto, oltre alle linee guida Ocse, andrà svolta un’analisi fattuale, per individuare quei casi in cui a fronte di una consulenza definita “core” la realtà sottenda all’assenza di valore aggiunto. Viene chiarito, comunque, che il valore economico scarso o nullo deve essere riferito all’assenza di valore aggiunto come apporto alle operazioni realizzate da parte del soggetto controllato estero, limitandosi questo allo svolgimento di un’attività di mera fatturazione.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©