Adempimenti

Holding nell’incertezza sul carried interest

di Paolo Ludovici

Sul carried interest restano alcuni dubbi. La circolare dell’agenzia delle Entrate 25/E/2017 ha preso posizione su molti dei dubbi interpretativi sollevati dall’articolo 60 del Dl 50/2017 sulla partecipazione agli utili del private equity. Il quadro di riferimento è ora chiaro e ciò è un fatto lodevole che si inserisce in un percorso virtuoso con il quale l’Agenzia mira a contribuire alla tanto agognata tax certainty.

Rimangono però aperte alcune questioni, soprattutto in relazione a fattispecie diverse da quelle dei fondi di private equity e delle relative società target e cioè alle situazioni per le quali la norma è stata ideata.

Si pensi al caso di una società holding a capo di un gruppo industriale o di una società quotata che intende attribuire ai propri manager azioni e quote con diritti patrimoniali rafforzati, che replichino i profili economici e finanziari del carried interest.

Dal punto di vista formale, è pacifico che soggettivamente la norma non contiene alcuna limitazione: il riferimento alle società contenute nel primo comma dell’articolo 60 è idoneo a ricomprendere tanto le società di investimento quanto le società target dei fondi di private equity quanto ogni altra tipologia di società, incluse le società familiari.

Sul piano sostanziale, il soddisfacimento della condizione del limite minimo complessivo dell’1% per l’investimento dei manager non pone particolare problemi, ancorché la circolare abbia sorprendentemente affermato che il parametro è il patrimonio netto effettivo e non quello contabile (non si tratta solo di determinare importi potenzialmente più elevati ma soprattutto di importi passibili di diverse valutazioni con conseguenti profili di incertezza).

Ugualmente non problematica appare la condizione del periodo minimo di possesso quinquennale, difficilmente riducibile in virtù di eventi di change of control che non sono così fisiologici per le società quotate o per le holding a capo di gruppi familiari.

Ciò che solleva difficoltà non banali è invece la condizione della previsione statutaria secondo cui la monetizzazione dei diritti patrimoniali rafforzati deve essere subordinata all’integrale ripagamento dell’investimento degli altri soci (non è chiaro ci si riferisca al valore di mercato alla data di sottoscrizione delle Quote B, quell.e con diritti patrimoniali rafforzati) maggiorato di un rendimento minimo predefinito. Tale previsione può essere inserita nello statuto della società quotata o delle holding familiare ma in molti casi rende indeterminato l’orizzonte temporale di monetizzazione del carried interest.

Ad esempio se una holding vale un miliardo di euro (ad esempio per effetto di un multiplo dell’Ebitda pari a 10) in quanto tempo i soci ordinari potrebbero ottenere distribuzioni per un miliardo oltre all’hurdle rate?

In alcune situazioni, l’ostacolo è superabile: decorsi cinque anni, i manager cedono le Quote B al loro ipotetico valore di mercato alla società emittente (se in forma di società per azioni) o alla top holding company tipica dei gruppi familiari. Le Quote B, continuano ad esistere e la previsione statutaria viene mantenuta. Ma cosa succede laddove questo non sia possibile? L’effetto pratico è di escludere tout court certi soggetti dal beneficio previsto dall’articolo 60, con i connessi temi di equità fiscale e di creazione un mercato non concorrenziale tra manager di società aventi profili societari diversi.

Basterebbe poter affermare, soprattutto ma non solo nel caso delle società quotate, che decorsi cinque anni i manager possono monetizzare i rispettivi investimenti come se a quella data avvenisse un’ipotesi di change of control ai valori normali. Oppure si potrebbe seguire la strada dell’interpello interpretativo, trattandosi di una situazione che rischia di non essere compresa ab initio nelle previsioni dell’articolo 60 non per volontà delle parti, ma per sostanziale impossibilità tecnica.

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