Finanza

Attività di convalida blockchain tassata come reddito di capitale

L’Agenzia con un lungo interpello scioglie il nodo dell’imposta sullo staking: la società che offre l’infrastruttura informatica opera da sostituto

di Alessandro Galimberti

La remunerazione per lo svolgimento di attività di staking - la “validazione diffusa” nell’ambito dei processi blockchain - è da considerare «reddito di capitale» (articolo 44 del Tuir) e come tale deve essere tassata alla fonte dal sostituto d’imposta (26%). La collaborazione allo staking non origina invece un «reddito diverso» da «attività di lavoro autonomo non esercitata abitualmente» (articolo 67 del Testo unico delle imposte sui redditi).

Con un chilometrico interpello (n° 956-771/2022) la Direzione centrale piccole e medie imprese delle Entrate chiude l’ultimo varco interpretativo della tassazione del mondo crypto, sempre in attesa della tanto auspicata regolazioneglobal e localdella nuova tecnologia decentralizzata e disintermediata (almeno all’apparenza).

A muovere ancora una volta le Entrate in veste di supplente - stante il già sottolineato mancato inquadramento normativo - è la start upumbra CryptoSmart -fondata da Alessandro Ronchi , Flavio Ubaldi e Alessandro Frizzoni - e attiva su tutto il range delle attività attualmente possibili con la blockchain: dall’acquisto/vendita di valute virtuali (servizi di exchange), alla gestione del portafoglio virtuale delle chiavi crittografiche (servizi di wallet), fino , appunto, alle attività di certificazione diffusa (sostanzialmente la soluzione di calcoli molto complessi) cosiddetta di staking.

In linea generale l’Agenzia ribadisce per le criptovalute i già noti approcci sulla non imponibilità dell’Iva sia per l’exchange («operazioni di cambio tra valuta virtuale versus valuta tradizionale») sia per l’attività di wallet («trattandosi di operazioni connesse con le operazioni di compravendita di criptovalute»). Entrambe le attività però restano soggette alle imposte dirette «tenuto conto del principio espresso nella risposta 788/E del 2021, per cui alle operazioni in valuta virtuale si applicano i principi generali che regolano le operazioni aventi ad oggetto valute tradizionali», in particolare quelle che disciplinano le operazioni in valuta estera. La base, come noto, è la sentenza della Corte Ue 22 ottobre 2015 (causa C-264/14), che assimila le operazioni in valute virtuali a quelle «relative a divise, banconote e monete con valore liberatorio». Da lì l’Agenzia ha tratto una serie di conseguenze sul piano fiscale. Agli eventuali redditi si applica l’articolo 67, comma 1-ter del Tuir per le valute estere, ossia tassazione dei proventi ma solo se derivano da una cessione a titolo oneroso di valute detenute su conti correnti e depositi con giacenza media superiore, per almeno sette giorni lavorativi continui, a 51.645,69 euro.

Quanto allo staking, invece, la start up lo inquadrava come una forma di remunerazione per l’esecuzione delle operazioni di validazione/convalida necessarie per la generazione di nuovi blocchi, con rischi connessi a tale operatività che non hanno nulla a che vedere con i tipici rischi tipici di natura finanziaria o legati alla perdita di un capitale, «essendo piuttosto legati alla custodia delle criptovalute attraverso idonei strumenti di cyber security». Rischi che hanno «natura prettamente informatica, essendo correlati alla perdita potenziale di criptovalute in caso di bug dovuti al cattivo funzionamento dei sistemi hardware/software nel periodo di permanenza del vincolo necessario per lo svolgimento delle attività di staking». Da qui l’ipotizzata qualificazione di «redditi diversi».

Non così invece per l’Agenzia, secondo cui a partire dalla circolare 165/E/ 98 per la configurabilità di un reddito di capitale è sufficiente «l’esistenza di un qualunque rapporto attraverso il quale venga posto in essere un impiego di capitale e quindi anche rapporti che non siano a prestazioni corrispettive ovvero nei quali il nesso di corrispettività non intercorra tra la concessione in godimento del capitale ed il reddito conseguito». Quindi non solo i «frutti civili» dell'articolo 820 del codice civile «ma anche tutti quei proventi che trovano fonte in un rapporto che presenti come funzione obiettiva quella di consentire un impiego del capitale».

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