Controlli e liti

Dopo l’accordo Entrate-Google, Fisco a caccia di un miliardo sul web

di Angelo Mincuzzi

È un fiume di denaro, quasi un miliardo di euro, quello che dalle web companies sta per finire nelle casse del Fisco italiano. L’accordo firmato ieri da Google con l’agenzia delle Entrate per 306 milioni di euro è il più recente in ordine di tempo ma non sarà l’ultimo. In lista d’attesa c’è Amazon, il colosso delle vendite online fondato da Jeff Bezos, al quale poche settimane fa la Guardia di Finanza di Milano ha contestato una mancata dichiarazione d’imposte per 130 milioni di euro. E nell’elenco c’è anche il social network di Mark Zuckerberg, Facebook, sul quale sono in corso gli accertamenti delle Fiamme Gialle ma non ancora una quantificazione del conto da saldare. Alla fine del 2015 era stata Apple a svolgere suo malgrado il ruolo di apripista, accordandosi con il Fisco per il pagamento di 318 milioni di euro, primo caso in Italia tra i big di internet.

Mentre si riaccende la discussione sulla web tax, è il ministro dell’Economia, Pier Carlo Padoan, a intervenire segnalando come l’accordo riveli «che sia ragionevole porre alle imprese multinazionali un’alternativa, legata all’accettazione di status di stabile organizzazione o meno: lavoriamo a partire da questa evidenza che abbiamo, io sicuramente sono disponibile a ragionarne in modo che si possa arrivare a provvedimenti che siano funzionali in questo senso». Padoan ha poi detto che se ne discuterà la prossima settimana a Bari, alla riunione dei ministri delle Finanze del G7.

Ed è Rossella Orlandi, direttore dell’Agenzia delle Entrate, a spiegare con poche parole cosa stia accadendo di strano in Italia, paese con il record di evasione fiscale ma capace – almeno in questo – di dettare la linea agli altri stati europei. L’accordo, chiosa la Orlandi, «rappresenta un passo avanti fondamentale nella strategia di lungo periodo che stiamo perseguendo grazie a un grande lavoro di squadra» con Guardia di Finanza e Procura di Milano. Lo si era visto due anni fa nel caso-Apple, il lavoro di squadra, quando le investigazioni del Nucleo tributario della Guardia di Finanza di Milano si erano mosse insieme a quelle dell’agenzia delle Dogane, coordinate dalla procura della Repubblica di Milano, e si erano infine collegate all’attività dell’agenzia delle Entrate. Quell’accordo che il 30 dicembre 2015 aveva portato la multinazionale fondata da Steve Jobs a staccare l’assegno di 318 milioni di euro era il frutto di una strategia di coordinamento il cui copione si è replicato anche con Google.

Il conto di questo lavoro è presto fatto. Ai milioni di Apple si aggiungeranno ora i 306 di Google. Ad Amazon sono stati contestati altri 130 milioni: alla fine la società potrebbe anche pagarne di più, come accaduto con Google rispetto alle contestazioni mosse dalla Gdf. Il calcolo parziale si attesta così a 754 milioni di euro. E poi c’è Facebook, che nel 2015 ha pagato in Italia 2,2 milioni di euro a fronte di una posizione di dominio (con Google) nel mercato pubblicitario online. Difficile dire come finirà, ma i precedenti lasciano ben sperare. Indagini alla procura di Milano ci sono anche su Cisco e su Western Digital, il colosso americano che nel 2014 controllava il 44% del mercato mondiale degli hard disk e che nel 2015 ha comprato SanDisk per 19 miliardi di dollari.

Il frutto di questo lavoro di squadra (con l’aggiunta del Nucleo di Banca d’Italia a supporto della procura di Milano) ha portato alla fine dello scorso anno il Credit Suisse Ag di Zurigo a pagare al Fisco circa 110 milioni di euro. Non si trattava di una web company ma come per Apple, Google e agli altri in gioco c’era una stabile organizzazione occulta. Ecco, allora, che il conto sale a 864 milioni. Ai quali andranno aggiunti gli eventuali accordi che l’Agenzia delle Entrate raggiungerà con le altre società oggi al centro di inchieste, come appunto Facebook.

Le polemiche non sono mancate in passato sull’entità delle cifra versata da Apple per chiudere il contenzioso con il Fisco. Troppo poco rispetto agli affari che rimpinguano le casse dei big del web, ha osservato qualcuno. Troppo poco anche rispetto agli obblighi dei contribuenti privati o delle piccole e medie imprese che le imposte (altissime) devono pagarle per intero. Ma in un’audizione al Senato lo scorso aprile il procuratore della Repubblica di Milano, Francesco Greco, che del lavoro di squadra evocato dalla Orlandi è il motore, lo ha spiegato con poche parole: «Ci sono enormi problemi in sede di accertamento e di investigazione». Traduzione: stabilire con esattezza l’imponibile evaso nel mare magnum del web è operazione quasi impossibile e dunque gli accordi sono una soluzione realistica. Soprattutto pongono le basi per qualcosa di più importante: le procedure di ruling permetteranno di accertare le imposte che Google & C. dovranno pagare da ora in poi in Italia.

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