Controlli e liti

Accertamento induttivo, la corretta contabilità non giustifica l’antieconomicità

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di Roberto Bianchi

Nell’ambito dell’accertamento induttivo dei redditi di impresa - disciplinato dall’articolo 39, comma 1, lettera d) del Dpr 600/1973 e fondato sulla base della verifica delle scritture e delle registrazioni contabili - l’atto di rettifica, qualora risulti sufficientemente motivato dall’Ufficio mediante la specificazione degli indicatori di inattendibilità dei dati correlati ad alcune poste di bilancio e dimostrata la loro astratta idoneità a rappresentare una capacità contributiva non dichiarata, è assistito da presunzione di legittimità circa l’operato degli accertatori nel senso che, l’Ufficio, null’altro è tenuto a provare, se non quanto emerge dal procedimento deduttivo fondato sulle risultanze esposte, mentre grava sul contribuente l’onere di comprovare la regolarità delle operazioni effettuate, anche in relazione alla contestata antieconomicità delle stesse, non essendo sufficiente invocare l’apparente regolarità delle annotazioni contabili. In ogni caso, in tema di accertamento induttivo del reddito di impresa, ai sensi dell’articolo 39, comma 1, lettera d) del Dpr 600/1973, il convincimento del giudice in ordine alla sussistenza di maggiori ricavi non dichiarati da un’impresa commerciale può fondarsi anche su una sola presunzione semplice, purché grave e precisa.
A tale conclusione è giunta la Cassazione attraverso l’ ordinanza n. 12104/2019 .
In presenza di contabilità regolarmente tenuta e riconosciuta attendibile, l’Amministrazione finanziaria è chiamata alla determinazione del reddito imponibile secondo modelli procedurali particolarmente stringenti, in quanto agganciati alla puntuale analisi delle specifiche componenti attive e passive di reddito. Per radicare le rettifiche l’Ufficio deve quindi dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della propria maggior pretesa, fornendo la prova delle irregolarità contabili commesse dal contribuente, nonché degli elementi e delle circostanze rivelatori di maggior imponibile (Cassazione 10802/2002).
Il contribuente – qualora intenda contestare l’idoneità dimostrativa di quei fatti, oppure sostenere l’esistenza di circostanze modificative o estintive dei medesimi – deve, a sua volta, dimostrare i fatti su cui le sue eccezioni si fondano. Anche nel caso in cui proceda mediante l’impiego di dati extracontabili, pur nel rispetto del complessivo impianto contabile, l’Amministrazione finanziaria è gravata dell’onere della prova. Questa può essere fornita anche mediante presunzioni, sempre che l’esistenza del fatto da dimostrare derivi dal fatto noto come conseguenza ragionevole e verosimile (Cassazione, sentenza 17408/2010).
D’altro canto, vale ricordare l’orientamento secondo il quale non è sufficiente, per procedere all’accertamento del maggior reddito in presenza di scritture contabili formalmente regolari, il solo rilievo dell’applicazione, da parte del contribuente, di una percentuale di ricarico diversa da quella mediamente evincibile nel settore di appartenenza poiché le medie costituiscono estrapolazioni statistiche di dati disomogenei non idonee, in quanto tali, a integrare gli estremi di una prova per presunzioni (Cassazione, sentenza 12032/2009).
Infine, in merito alla valutazione processuale, compete al Giudice verificare se gli elementi impiegati dall’Amministrazione posseggano un proprio significato probatorio e un’affidabilità ai fini della presunzione, nonché se gli effetti che l’Amministrazione ha inteso desumere siano o meno compatibili con il criterio della normalità (Cassazione, sentenza 13802/2003).

Cassazione, sezione tributaria, ordinanza 12104 dell’8 maggio 2019

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