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Accordi transattivi, per il Fisco vanno assoggettati a Iva

Le risposte a interpello delle Entrate delineano un’equiparazione con le prestazioni di servizi

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di Marco Magrini

Le somme percepite in relazione alla conclusione di accordi transattivi sono da considerare prestazioni di servizi soggette a Iva. È la tesi sostenuta e alimentata da svariate interpretazioni dell’agenzia delle Entrate pubblicate nel 2021.

Assonime, nella propria circolare 26 del 9 settembre 2021, afferma di non condividere questa tesi se applicata alla generalità degli accordi transattivi e senza che venga posto in essere un adeguato vaglio delle pattuizioni contenute negli stessi accordi. Infatti la circolare di Assonime considera che l'autonoma corrispettività dell’accordo transattivo non può rappresentare in toto le fattispecie che portano alla sottoscrizione di tali atti di composizione dei rapporti fra le parti coinvolte.

La prassi dell’agenzia delle Entrate

Secondo le risposte a interpello più recenti, per il fisco, l’esistenza della prestazione di servizi deriverebbe dall’obbligo di fare o non fare che è alla base e oggetto dell’accordo transattivo e ivi espressamente formalizzato, e corrisponderebbe all’impegno assunto dalla parte verso l’altra:

• di non proseguire le azioni contenziose già avviate;

• o di non iniziare nuove azioni contenziose.

In sostanza il prezzo pagato per suggellare il «patto di non belligeranza» fra le parti, avrebbe autonoma natura di prestazione di servizi, ai sensi dell’articolo 3, comma 1 del Dpr 633/1972, e verrebbe così assoggettata a Iva in regime di imponibilità. In conseguenza si dovrebbe ritenere applicabile al corrispettivo l’aliquota ordinaria in quanto autonomamente rappresentativa e remunerativa di servizi generici.

Questa presunzione porterebbe a dover anche ritenere che non possa essere applicata l’aliquota Iva dei beni e/o servizi propri del rapporto oggetto di composizione; ciò in quanto l’oggetto della prestazione, in quel caso e con questa ipotesi presuntiva, non sarebbe riferibile a quelle cessioni e prestazioni, ma avrebbe carattere autonomo seppure nascente dal rapporto soggetto a transazione, per cui ai corrispettivi ivi previsti non dovrebbe essere applicata l’aliquota o il trattamento oggettivo proprio originariamente applicato al contratto.

Natura novativa o dichiarativa della transazione

L’atto di transazione può avere carattere «dichiarativo» o «novativo», in ragione della presenza in esso di accordi che possano determinare fra le parti nuove obbligazioni o regolare semplicemente quelle già esistenti e prodotte originariamente.

Le nuove obbligazioni possono, ma non sempre, comportare l’insorgenza di nuove prestazioni di servizi potenzialmente soggette a Iva in ragione del fatto che si venga a determinare effettivamente un’obbligazione di fare, non fare o permettere a cui corrisponda uno specifico corrispettivo, secondo le indicazioni derivanti dall’articolo 2, paragrafo 1, lettera c), della direttiva 2006/112 e dall’articolo 3, comma 1 del Dpr 633/1972 (norma di recepimento nella normativa domestica).

Se la sottoscrizione dell’accordo transattivo ha a oggetto e persegue unicamente l’obiettivo di determinare fra le parti il danno subito e il suo risarcimento, con erogazione di una somma a copertura, mancando qualsivoglia prestazione l’operazione non avrebbe natura di prestazione di servizi e la dazione assumerebbe la natura di prestazione estranea al campo di applicazione dell’Iva come mera erogazione di denaro secondo lo schema dell’articolo 2 del Dpr 633/1972.

La giurisprudenza

A conferma di questa impostazione, la Corte di giustizia Ue ha affermato che per riscontrare la sussistenza di una prestazione di servizi rilevanti ai fini Iva, è sempre necessario che l’operazione trovi concretezza nella presenza di un servizio effettivamente fruibile da parte del soggetto che versa la somma, il quale deve ottenere un vantaggio che possa considerarsi un elemento costitutivo del corrispettivo dovuto dal soggetto di una attività commerciale (sentenze C-384/95 e C-215/94) o che comunque fra prestatore e utente debba intercorrere un rapporto giuridico tramite il quale avvenga uno scambio effettivo di prestazioni (sentenza C-263/15). Anche la Cassazione con l’ordinanza n. 20316 del 15 luglio 2021 è allineata a questa lettura.

Il fatto che le parti, nell’accordo transattivo sottoscritto, prevedano in modo specifico l’esclusione di voler proseguire o iniziare l’azione contenziosa, non essendo questo l’oggetto del contratto, ma unicamente la sua conseguenza, non basta per affermarne il sistematico assoggettamento a Iva.

L’ipotesi di una definizione il cui “corrispettivo” debba essere considerato al lordo dell’Iva si traduce in una condizione svantaggiosa per il soggetto creditore dal momento che lo rende debitore verso l’erario dell’Iva senza possibilità di ristoro del danno o perdita patiti.

L’iniziale orientamento della prassi

L’esame delle indicazioni della prassi dell’agenzia delle Entrate sull’argomento parrebbero convergere in una lettura a senso unico che smentisce un precedente orientamento della stessa Amministrazione finanziaria. Paiono infatti, almeno per adesso, superate le indicazioni contenute nelle risposte a interpello 387 del 20 settembre 2019 e 178 del 3 giugno 2019. Proprio nell’intervento dell’interpello 178/2019, si apprezzava l’indicazione circa la necessità di doversi procedere a un’analisi caso per caso, al fine di stabilire il trattamento Iva della transazione. Infatti doveva essere esattamente individuata la volontà delle parti e così riportata nelle previsioni contrattuali, nonché l’effettivo interesse emergente dall’accordo sottoscritto.

La linea interpretativa recente

Il cambio di rotta rispetto alla descritta linea interpretativa precedente si ritrova nella prima risposta sul tema del 2021 (interpello 145 del 3 marzo); questa fissa la base interpretativa, e inaugura il percorso tracciato dalle altre successive risposte, sul concetto per cui qualora gli accordi transattivi stabiliscano l’impegno di una parte a rinunciare all’esercizio di ogni ulteriore pretesa nei confronti della controparte, a fronte della percezione di una somma di denaro, tale erogazione debba essere considerata un corrispettivo a copertura dell’assunzione di un obbligo di fare, non fare o permettere e quindi da assoggettare a Iva.

Il presupposto del sinallagma e della necessità di assoggettamento a Iva viene ravvisato sussistere nel carattere novativo degli accordi transattivi, attraverso il formarsi dell’ipotesi di una permuta di prestazioni fra le parti aventi ragione di reciproca corrispettività. In tale quadro viene di fatto soddisfatto il presunto interesse del soggetto, chiamato a versare le somme, che in ragione di questa conclusione potrebbe anche ottenere un risparmio del proprio onere in relazione alla possibilità di detrarre l’Iva addebitatagli da controparte, anche se alla base non vi sia alcuna reale prestazione consumabile che giustifichi la rilevanza dell’operazione.

Si pone sulla stessa linea d’interpretazione anche la più recente risposta a interpello 401 del 10 giugno 2021 dove la rilevanza Iva della dazione viene collegata all’elemento transattivo per cui la somma viene corrisposta «a saldo, stralcio e tacitazione di qualsiasi pretesa sorta in dipendenza del contratto di appalto».

La corrispettività deriverebbe direttamente dalla clausola risolutiva dell’accordo transattivo che sottomette l’efficacia delle rinunce ivi previste all’effettivo incasso delle somme pattuite e non ai maggiori corrispettivi per i lavori dell’appaltatore come ci si poteva attendere anche in relazione all’affermata imponibilità con Iva, non al 22% però, ma al 10% in base ai nn. 127-quinquies) e 127-septies), Tabella A, parte terza allegata al Dpr 633/1972. Analoghe considerazioni emergono dalle altre risposte a interpello n. 179, 212 e 356 del 2021.

Rischio di fatturazione Iva in eccesso

L’approccio interpretativo così categorico da parte dell’agenzia delle Entrate, in un contesto che non appare pacifico per tutti i casi, anzi in base alle tesi della giurisprudenza e alle criticità evidenziate da Assonime e dalla dottrina, parrebbe addirittura rappresentare una posizione casistica minoritaria, rischia di creare situazioni in cui la fatturazione, valutata in sede di controllo caso per caso, potrebbe risultare errata e l’Iva addebitata in eccesso con le conseguenze sanzionatorie relative.

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