Controlli e liti

Alla compliance serve un rapporto Fisco-contribuente basato sulla certezza

di Andrea Carinci

Le lettere per la compliance hanno portato 400 milioni di euro nel 2016, come anticipato sul Quotidiano del Fisco del 27 gennaio . Compliance è una parola evocativa di modernità, progresso, di un’amministrazione “migliore”, ma cosa esattamente significhi non è chiaro; e questo, va detto, perché - soprattutto negli ultimi tempi - di tale termine si è (un po’) abusato. La compliance dovrebbe indicare un modello di azione dell’amministrazione finanziaria ispirato a coinvolgere il contribuente nell’attuazione del prelievo, secondo moduli ispirati a partecipazione/collaborazione, in luogo delle soluzioni “tradizionali” incentrate su dialettica e conflittualità.

Ma come questo si possa e debba poi attuare, in concreto, non è affatto chiaro. Basta solo evocare la circostanza che di compliance si parla in occasione della riforma degli studi di settore, che dovranno invero trasformarsi da strumento di accertamento (ancorché - per inciso - non lo potrebbero più essere, dal momento che la giurisprudenza li ha relegati a meri indizi) a mezzo con cui promuovere, appunto, la compliance.
Di compliance si parla però anche con riguardo al nuovo istituto dell’adempimento collaborativo (cooperative compliance), introdotto con gli articoli 3 e successivi del Dlgs 128/2015 e recentemente balzato agli onori della cronaca per i primi accordi siglati con un importante gruppo industriale.
Ebbene, è chiaro che, al di là della sigla e dalla comune finalità di prevenire il conflitto tra amministrazione finanziaria e contribuente, si tratta di fenomeni ed istituti profondamente differenti.

Nel caso degli studi di settore, la compliance sta ad identificare essenzialmente un modello di gestione del rapporto tributario incentrato sull’adesione spontanea del contribuente alle soluzioni ed alle indicazioni promananti dell’Amministrazione finanziaria.
Una sorta di acquiescenza preventiva, in cui il contribuente per evitare “fastidi” si adegua spontaneamente ai modelli “suggeriti” dall’Amministrazione finanziaria. Nel caso della cooperative compliance, invece, viene introdotto un istituto volto essenzialmente a promuovere ed incentivare, tramite accordi, la disclosure preventiva del contribuente sulle situazioni a maggiore rischio fiscale, in modo da ricercare preventivamente le soluzioni idonee ad evitare un possibile conflitto. Sicché, a parte il fine perseguito, che è certamente comune, ossia deflazionare il contenzioso, si tratta di istituti profondamente differenti, dai quali non è pertanto possibile ritrarre un’idea univoca di compliance. Non di meno, vi è un profilo che li accomuna e che può essere considerato una sorta di condizione preliminare, imprescindibile di ogni formula di compliance: l’affidabilità dell’amministrazione e la fiducia del contribuente.

Perché un rapporto Fisco-contribuente, ispirato alla compliance, possa funzionare occorre, prima di tutto, che l’amministrazione finanziaria sia credibile, che offra garanzie e certezze negli accordi siglati come nelle soluzioni interpretative offerte, che sappia valorizzare a sua volta l’impegno e la collaborazione del contribuente, prestando attenzione alla sostanza del rapporto, piuttosto che al rispetto pedissequo di forme e procedure.

Solo coltivando la fiducia dei contribuenti nell’Amministrazione, prima ancora che blandendoli con la promessa di fantomatici vantaggi (come la riduzione dei termini di accertamento, peraltro testé aumentati), è possibile immaginare un reale mutamento nel rapporto Fisco-contribuente. Se tale rapporto deve essere ispirato alla collaborazione, deve essere infatti fondato sulla fiducia e non sul sospetto e la diffidenza, né su un mero “calcolo” di convenienza, che potrà al più convincere i contribuenti più smaliziati; ma perché ciò accada occorre che l’amministrazione “conquisti” il credito dei contribuenti, mostrandosi un interlocutore affidabile e di buon senso.

Per saperne di piùRiproduzione riservata ©